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 2025  dicembre 24 Mercoledì calendario

Iginio Massari: "Il panettone? Non solo a Natale Cossiga il più goloso, si riforniva qui"

Le cose più dolci sono quelle che escono dal forno, il resto è affidato a una miscela di disciplina e pulizia. Lo si intuisce appena si varca la soglia del laboratorio di Iginio Massari: un elenco di regole «insindacabili» campeggia in un cartello, in stampatello. La prima dice che «nessuno può lavorare con il cellulare in tasca», la seconda che non si può posteggiare «nel parcheggio antistante»; per necessità o emergenze, c’è scritto, ci si può far contattare al numero della pasticceria. Poco più sotto quell’avviso, a una manciata di gradini, Massari controlla la consistenza di una fila di bignè. Lo scorso agosto ha compiuto ottantatre anni: gli ultimi settanta trascorsi tra zucchero, creme e lievitati. Indossa la sua divisa borghese d’ordinanza, completo e girocollo blu. Come ogni giorno, si è svegliato alle due e mezza del mattino, è arrivato in negozio, ha sistemato sedie e tavolini – «Così quando, alle sette, arrivano le ragazze hanno meno da tribolare» – ha bevuto mezza spremuta d’arancia e ha steso il programma di lavoro della giornata.
In questi settant’anni saranno cambiati anche i clienti.
«Alcuni sono invecchiati con noi, ma oggi circa un terzo arriva dal Sud. E quasi tutti sono diventati come i giapponesi: hanno bisogno di continue novità».

Come si riesce ad accontentarli?
«Cambiando forme, guarnizioni e modo di impastare. Pensi al maritozzo: una volta si faceva con il pane all’olio, oggi con una pasta brioche al lievito naturale. Quell’innovazione l’abbiamo introdotta noi».
Più innovazione, ma anche meno zucchero.
«Nella panna lo abbiamo diminuito dell’85 per cento: ne mettiamo quanto basta per valorizzarne il gusto».

È un’esigenza culinaria o una necessità di mercato?
«Il mercato lo fa chi produce. Lei potrà cucinare le cose più buone del mondo, ma se non le accompagna da una comunicazione corretta, finirà sempre a mangiarsele da solo».
Cos’è che in questi settant’anni, invece, non è cambiato?
«La necessità del contatto umano: il cliente vuole sapere chi fa i dolci e come li fa. Certo, c’è chi chiede il selfie, ma sempre più spesso c’è chi domanda perché si usano certi ingredienti».
Come vive questo rapporto?
«Parlare e capire le persone fa parte del mestiere».
Ci riesce sempre?
«A volte le richieste sono assurde: mia moglie Mary, ogni tanto, mi dice che è meglio che scenda in laboratorio quando arrivano certi ordini. Allora chiamo il capopasticcere: “Sali tu ad ascoltarli, io mi sono scocciato"».
Un esempio?
«Anni fa, in pieno craxismo, la figlia di un importante politico mi chiese una torta nuziale alle carote per seicento persone. Le dissi: “Questa cosa qui, col mio nome sotto, non la faccio. Potrà andar bene per una scampagnata, non per una cerimonia"».
Politici ghiotti?
«Francesco Cossiga. Ogni settimana spediva qui un onorevole bresciano a prendere il suo dolce preferito, la ciambella di nonna Rachele. Le mangiò fino a poco prima di morire».

Da quindici anni è una presenza fissa in televisione, anche grazie a MasterChef: la popolarità ha cambiato il suo modo di lavorare?
«Non sono mica un uovo di Pasqua: non prometto sorprese. So quello che sono e quello che valgo. Mi chiamano “maestro dei maestri”, ma non ho mai fatto un esame perché in Italia purtroppo non esistono».
È anche da qui che nasce la legge che porta il suo nome e che istituisce la figura di «maestro dell’arte della cucina italiana».
«Lo scopo è trasformare il mestiere di pasticciere in una professione, riconoscendone lo status e regolandone l’accesso. Ma quella riforma non è ancora stata del tutto attuata».
In assenza di una norma, come si riconosce il talento?
«Il talento è come il denaro: chi ce l’ha non sa di averlo. Altrimenti non si spiegherebbe come mai, se uno sa di averlo, continua a lavorare come un matto. L’uomo senza lavoro si sente inutile».
Maestro, domani è Natale. Il dolce che più lo rappresenta?
«Qui in Lombardia non ci sono dubbi: il panettone».
Lei ha detto però che dovrebbe uscire dalla casella del prodotto stagionale.
«È come fare una macchina eccezionale e usarla un mese l’anno. A Natale c’è il boom, ma preferirei distribuire il lavoro su dodici mesi».
Ne fa una questione di economia di scala?
«Per forza. Chi non è d’accordo spesso ne produce pochi».

Anche il panettone ormai è sempre rivisitato.
«Puoi fare tutte le innovazioni che vuoi, ma sono i clienti che decretano se funzionano. Cinquant’anni fa l’ho portato a Minneapolis, insegnando come si fa in una scuola con cinquemila studenti. Poi a Tokyo e ancora a Barcellona, in un istituto di proprietà del genero dello chef Paul Bocuse. L’assistente era Francisco Torreblanca, oggi uno dei grandi maestri della pasticceria spagnola».
Avete aperto negozi a Milano, Torino, Verona, Firenze e Roma. Quanto è difficile mantenere la qualità quando il nome diventa un marchio?
«Il problema non è la qualità, ma la condivisione degli standard con le maestranze».
Come ci si riesce?
«Riconoscendo la curiosità e l’interesse. Il mio capopasticciere è con noi da 26 anni: ancora oggi, quando ha un problema, mi chiede: “Secondo lei, come possiamo intervenire?"».
A proposito di consigli: ne dia uno a chi si mette in questi giorni a cucinare.
«Attenti alla cottura. È la cosa più insidiosa».
Ora, invece, la ricetta: alla portata di tutti, e con il panettone.
«Prendetene uno, tagliatelo orizzontalmente, inzuppatelo nel maraschino. Poi preparate la crema pasticcera, mettetene uno strato, un po’ di panna e tutto attorno i cannoncini. Si chiama torta meneghina, si fa pure dopo Natale, proprio con gli avanzi del panettone».

Serve comunque imbattersi nella cottura.
«Si fidi: se ci si applica, ce la può fare».