la Repubblica, 24 dicembre 2025
Elogio di Stefano il mite santo del giorno dopo
Santo Stefano è il più frainteso dei santi. Apparentemente è il santo del giorno dopo, una semplice coda del Natale. Per di più la sua ricorrenza è diventata festa nazionale solo nel 1947. E in un periodo come quello natalizio, quando il cibo la fa da padrone tra lasagne e carpioni, capponi e panettoni, tortellini e cotechini, il 26 dicembre non ha neanche un suo piatto tipico. Si consumano gli avanzi della cena della Vigilia e del pranzo di Natale, come dire quel che resta della festa.
Eppure l’apparente penalizzazione che lo relega in una tregua metabolica del calendario, in un time out delle Feste, testimonia che Stefano è un centrocampista della santità, sempre sacrificato, mai in primissimo piano, ma indispensabile perché quando ce n’è bisogno fa miracoli. Intanto il fatto che il suo giorno cada all’indomani del Natale è prova della sua centralità e non della sua marginalità. In realtà viene festeggiato dalla Chiesa subito dopo la Natività perché è il primo a testimoniare la parola di Gesù e a morire dopo di lui. Lapidato nel 36 dopo Cristo all’età di trentun anni. Gli Atti degli Apostoli lo annoverano tra i Comites Christi, ovvero i compagni più stretti del Messia. Di fatto è il primo martire riconosciuto dalla Chiesa. Ecco perché ha l’attributo di protomartire. E il suo giorno festivo viene fissato immediatamente dopo il Natale proprio per tradurre la prossimità nel destino in prossimità nel calendario. Le Scritture raccontano che nel corso del martirio, mentre i carnefici lo uccidono a colpi di pietre, Stefano intona un canto in cui dice di vedere le porte del cielo aprirsi. Knockin’ on Heaven’s Door, per dirla con Bob Dylan. Video caelos apertos per dirla con le Scritture. Poi prega il Signore di perdonare i suoi assassini.
Nella Divina Commedia, Dante rende all’episodio un grande omaggio nella terza cornice del Purgatorio, in cui sono puniti gli iracondi. Il Sommo mette in versi le parole stesse delle Scritture contrapponendo all’ira funesta dei carnefici la mansuetudine serafica del santo che, nel momento stesso in cui sente arrivare la morte, guarda verso l’alto e ricomincia il canto. «Ma de li occhi facea sempre al ciel porte, orando a l’alto Sire, in tanta guerra, che perdonasse a’ suoi persecutori, con quello aspetto che pietà diserra». Alla musica dei versi di Dante rispondono le note di Felix Mendelssohn che nel 1836 rende gloria al martirio di Stefano nella prima parte dell’Oratorio Paulus dove, riprendendo le parole degli Atti degli Apostoli, fa dire al santo ormai in punto di morte «Signore Gesù, perdona loro questo peccato ed accogli il mio spirito». Anche l’arte consegna la figura di Stefano all’immaginario devoto raffigurandolo sempre con le pietre usate per lapidarlo. È il caso del dipinto di Giotto, ora al Museo Horne di Firenze, che lo ritrae con dei sassi quasi conficcati nella testa. O del vertiginoso scomparto della Pala Tornabuoni del Ghirlandaio, custodito al Szépm?vészeti Múzeum di Budapest, dove il martire ha la testa segnata e disegnata dal rosso del sangue. O ancora la Lapidazione eseguita da Giulio Romano per la chiesa genovese di Santo Stefano, quella di Giorgio Vasari per la chiesa omonima di Pisa, o quella di Luca Signorelli.
Un curriculum agiografico e iconografico di tale levatura spiega anche la lotta per accaparrarsi le reliquie miracolose del compagno di Cristo, che si ritrovano sparse ai quattro angoli del mondo cristiano, e qualche volta vengono clamorosamente alla ribalta con autentici colpi di teatro. Come quello che ha luogo nel 1659 a Napoli, nel convento di Santa Maria ad Agnone, dove nell’armadio delle reliquie viene trovata una fiala contenente il sangue rappreso di un martire senza nome, un milite ignoto della fede. Sull’ampollina non c’è nessuna scritta che aiuti a capire a chi appartenga. Alla fine ci si rassegna a riporla mestamente nella teca, quando un giovanissimo e devotissimo canonico di nome Luciano prende in mano il reliquiario e in una sorta di rapimento estatico comincia a salmodiare l’antifona di Santo Stefano Video caelos apertos, proprio quella che si canta il 26 dicembre e ricorda le ultime parole pronunciate dal santo durante il martirio. Miracolosamente il liquido comincia a risplendere e bollire nell’ampolla. Stefano ha declinato le sue generalità all’anagrafe del sangue.
Ma forse la storia più commovente sul santo del day after appartiene alla tradizione popolare. E racconta di Tedia, una lavandaia che a Napoli viene chiamata Stefania ed è onnipresente sul presepe. La donna si reca alla grotta di Betlemme per adorare il Dio appena nato, ma le viene impedito di entrare perché nubile e senza figli. Allora l’astuta popolana avvolge un grosso sasso in uno scialle fingendo che sia un neonato. E al cospetto del bambinello per incanto il sasso si trasforma in un bimbo in carne e ossa, cui viene dato immediatamente il nome di Stefano. Allora la Madonna predice che quella creatura che da una pietra ha ricevuto la vita, da una pietra riceverà anche la morte. Ecco perché se Pietro è il primo mattone della Chiesa, Stefano, patrono dei cavatori, dei tagliapietra e degli scalpellini, è il suo muro maestro.