Corriere della Sera, 24 dicembre 2025
Quante risse sull’imputato Gesù
Qualche tempo fa, in occasione del Capodanno ebraico – racconta Israel Knohl nell’introduzione al suo notevole libro La disputa messianica. Farisei, sadducei e la morte di Gesù pubblicato da Adelphi – uscii di casa nel quartiere della German Colony di Gerusalemme e, a piedi, mi recai al Tempio per onorare la tradizione secondo la quale Capodanno è il giorno in cui Dio è incoronato Re dell’universo. Accanto al Muro del pianto, nell’atmosfera elettrica e nervosa fatta di inchini, parole bisbigliate, canti, suono del corno, avvicinamenti e distanze da quelle antiche pietre, a un tratto, un uomo con una lunga barba argentata sollevò gli occhi al cielo e iniziò a gridare: «Ecco il re che siede sul trono elevato!».
Questa scena – continua Knohl, biblista emerito all’università di Gerusalemme e nelle maggiori università americane – testimonia la vitalità dell’idea messianica che dal fondo dei secoli, insieme alle sue contraddizioni, arriva ai giorni nostri; e quanto fu fondamentale il dissidio religioso delle correnti ebraiche nel processo a Gesù. Due, infatti, e decisamente avverse, erano nella Bibbia le concezioni del rapporto fra l’umano e il divino. Da un lato si pensava a una distinzione netta, un Dio che non ha nulla a che fare col ciclo biologico della vita umana, e cioè con la nascita, la riproduzione e la morte. Dall’altro, alcuni salmi e certi testi profetici affermavano tutto il contrario, concentrandolo nella figura di un re, sia attuale che futuro e atteso, chiamato Messia, dotato di caratteristiche divine e Figlio di Dio.
Nessuna barriera, dunque fra Dio e l’uomo, per costoro: i Farisei. Barriera insormontabile, invece, per i loro avversari: i Sadducei, che negavano la possibilità di un Messia semi-divino. I giudici di Gesù erano Sadducei: e lo condannarono a morte. Se ne incaricarono i Romani; ma, precisa l’autore del volume, la disputa fu eminentemente religiosa.
Certo, religiosa: ma in luoghi geografici precisi, sulla scena della Storia. Nell’VIII secolo, quando gli Assiri conquistarono Gerusalemme e deportarono il popolo israelita, un uomo, Isaia, parlò di una grande luce che aveva visto bucare le tenebre, e di un bambino: «Un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio. Sulle sue spalle è il dominio e il suo nome sarà: Consigliere mirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace». Chi è – si domanda Israel Knohl – il bambino che deve nascere? Qual è il significato dei quattro titoli che gli vengono attribuiti «per sempre»? La monarchia davidica aveva fallito; non rimaneva che sperare in un prodigio che ripristinasse, chissà quando, la sua grandezza per l’eternità. E fu così che nacque l’aspettativa messianica.
Negli stessi anni, il profeta Osea sosteneva l’esatto contrario, e cioè che solo Dio era l’unico liberatore, nessun’altra divinità o figura in carne e ossa poteva prendere il suo posto a meno di non commettere il peccato di idolatria. Un secolo più tardi, quando nel 586 a.C. il Tempio fu distrutto, un altro profeta, Geremia, resuscitò non tanto l’immagine di un bambino-salvatore, ma qualcosa di altrettanto tenero e innocente, parlando di «un germoglio giusto che regnerà da vero re, sarà saggio e eserciterà il diritto e la giustizia sulla terra» (Gr, 23). Finché, mezzo secolo dopo, nel 539 a.C., l’imperatore di Persia Ciro conquistò Babilonia e a essere identificato nel Messia dal secondo Isaia fu proprio lui: un re straniero, di nuovo un essere umano in carne e ossa che agiva nel suo tempo. Nel quale, però, cominciava a delinearsi anche la figura messianica di un «servo sofferente», debole, ma forte nello spirito e nell’insegnamento. Un nuovo germoglio e un servo sofferente: non avrebbe potuto essere, agli occhi dei primi cristiani, Gesù di Nazareth, figlio del falegname?
Dovevano passare circa quattrocento anni, durante i quali l’attesa del Messia si inabissò; finché in un periodo drammatico della storia ebraica, coincidente con la persecuzione del re ellenistico Antioco IV (167 a.C.), apparve un nuovo profeta, Daniele. Egli vide quattro bestie raccapriccianti uscire dal mare, corrispondenti ai quattro imperi malvagi che avevano dominato il mondo. L’ultima, che lui identificava nella Grecia, era la più feroce: con grandi denti di ferro divorava, stritolava, calpestava il genere umano. Ma ecco che da questa Apocalisse la visione si spostava in cielo. Lì c’era un vegliardo con una grande barba bianca seduto su un trono, e davanti aveva i libri del giudizio. Ma non solo: «Ecco venire con le nubi del cielo uno simile a un figlio dell’uomo; giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui. Gli furono dati: potere, gloria e regno. Il suo è un potere eterno, che non finirà mai, e il suo regno non sarà mai distrutto».
Siamo al capitolo sette della profezia. Al capitolo dodici, leggiamo: «Molti di quelli che dormono nella regione della polvere si risveglieranno: gli uni alla vita eterna e gli altri alla vergogna e all’infamia eterna. I saggi risplenderanno come lo splendore del firmamento».
L’idea di Daniele, mai apparsa in una forma chiara e letterale in nessun luogo della Bibbia, era sconvolgente: la resurrezione dei morti. Cioè l’idea che esiste una vita dopo la morte e, insieme, un giudizio: una punizione, oppure una ricompensa che pone l’uomo accanto a Dio. Una parte del popolo ebraico rifiutò totalmente tale prospettiva. Tra questi, vi erano i Sadducei.
Siamo, ora, ai Vangeli. Giovanni battezzava nel Giordano. Probabilmente faceva parte della comunità degli Esseni che vivevano sulle sponde del Mar Morto e, come sappiamo dalla straordinaria scoperta nel 1947 dei Rotoli nella grotta di Qumran, credevano nella predestinazione e nella figura di un individuo sofferente che attraverso i suoi patimenti espia i peccati altrui. Tra coloro che vengono battezzati, c’è Gesù, che ode una voce: «Tu sei il Figlio mio prediletto; in te ho posto il mio compiacimento»; vede discendere sul suo capo lo Spirito Santo in forma di colomba; e si convince di essere lui il Messia.
La gente e i suoi stessi discepoli non credono a quanto proclama in sinagoga subito dopo essere tornato a Nazareth: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni, risorgerà... Essi però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo» (Mc, 9, 31-32). Quando viene arrestato nel Getsemani e portato davanti al Sommo Sacerdote che, come prima domanda, gli chiede: «Sei tu il Cristo, il Figlio del Benedetto?», risponde: «Io lo sono! E vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra della Potenza e venire con le nubi del cielo». Non è dunque il figlio di Davide, bensì il Figlio di Dio. Il Sommo Sacerdote si strappa le vesti. I giudici, tutti Sadducei, lo accusano di blasfemia e lo consegnano a Pilato perché sia crocifisso.
«Fu solo una tragica circostanza storica a porre il processo di Gesù nelle mani di una fazione minoritaria e non rappresentativa di una comunità» come conclude Israel Knohl, o tutto non era già scritto dal principio nel disegno divino?