la Repubblica, 23 dicembre 2025
Simone Moro: “Sul tetto del mondo il cuore mi ha tradito ma alle vette non rinuncio”
Un passo verso la morte l’ho mosso per passione, da innamorato: non per ossessione, da intestardito. A tradirmi sul tetto del mondo non è stato il cuore, ma la presunzione della mia esperienza. Il Manaslu in inverno resta lì, mi aspetta e presto lo raggiungerò: sarà un ritorno caldo, come quando ci si incammina verso casa». Simone Moro esce sorridente dall’ultimo check-up dell’équipe di Luca Lorini, direttore dell’Emergenza dell’ospedale Papa Giovanni XXIII dei Bergamo. L’aorta coronarica sinistra, dopo la crisi cardiaca del 12 dicembre a quota 5mila, ai piedi del Mera Peak in Nepal, è di nuovo pulita: quasi dimenticata la grande paura. A 58 anni, con 37 spedizioni in Himalaya, 22 ascese invernali e il primato delle quattro prime sugli Ottomila, conta pochi rivali anche tra salvati e sopravvissuti. «Questa volta però – racconta – non è stata una valanga a staccarsi da una vetta, ma un crepaccio ad aprirsi nel torace. Diventare vecchi, per un alpinista, non è solo il miracolo dell’intesa tra fortuna e confidenza: è il prodigio di un destino che si diverte a lasciarti sulla terra per un altro battito d’ali».
Sopravvivere per quasi ventiquattro ore a quota 5mila, con una crisi cardiaca e senza assistenza, per i medici è un caso eccezionale: cosa è successo?
«Il 10 dicembre ho raggiunto la vetta del Mera Peak, quota 6476, per allenarmi alla prima invernale del Manaslu, quota 8163, in stile alpino. Il tempo era bello e mi sentivo bene. Assieme a Nima Rinji, sherpa nepalese di 19 anni, sono salito rapidamente: due ore e mezzo dall’ultimo villaggio al campo alto, il giorno dopo due ore e venti fino alla cima. Sono sceso in meno di un’ora, pronto a risalire per acclimatarmi due o tre giorni sull’ultimo crinale. Come sempre la botta arriva quanto tutto appare calmo».
Come se ne è accorto?
«Per due giorni ho riposato nel lodge del villaggio più alto, sei edifici e poche famiglie. Alle 16.30 del 12 dicembre sono andato in bagno e un dolore al petto, esteso al braccio sinistro, mi ha improvvisamente piegato in due. Ho capito che il cuore non pompava più abbastanza sangue: ho chiamato un elicottero per i soccorsi, purtroppo invano».
Perché?
«Mancavano 20 minuti all’oscurità, salire a prendermi richiedeva mezz’ora. Il pilota della compagnia privata più vicina ha detto che era troppo tardi. È stata la lezione più importante degli ultimi anni».
Quale?
«Sono un pilota, nel 2009 per un soccorso sul Makalu, sempre in Himalaya, sono salito in elicottero a 6700 metri, quota mai raggiunta prima. Dieci giorni fa ho imparato che, se un alpinista chiama, per salvarlo si deve sfidare l’impossibile: e che gli attacchi cardiaci devono avere la precedenza. Se passano sei ore, non sopravvivi: in alta quota poi, la vita è questione di minuti».
Come ha resistito?
«Lentamente il dolore è diminuito, ho capito che non avevo un infarto e che non mi aveva colpito un ictus. Non potevo che aspettare, sperando che la carenza di ossigeno non bruciasse troppe cellule cardiache. Una notte insonne, invasa dagli incubi degli incidenti passati: alle 8 del 13 dicembre un altro elicottero mi ha portato a Lukla, la pista di chi va all’Everest, dove sono rimasto tre ore ad aspettare un’altra rotazione fino a Kathmandu. Poco prima delle 14 sono arrivato all’ospedale Hams, guidando io l’auto. Ho salito a piedi cinque piani di scale, fino alla cardiologia: il medico iraniano che mi ha soccorso non voleva crederci».
Quale spiegazione le hanno dato per questa crisi?
«Colpa mia, superficialità. Non ho bevuto abbastanza e mi sono disidratato. In alta quota la rarefazione dell’aria rende il sangue più denso. Per impedire che la densità lo assimili al miele, è necessario bere molto. Non l’ho fatto: un micro-coagulo ha parzialmente ostruito un’arteria. Errore imperdonabile, se la crisi mi avesse sorpreso in vetta non mi sarei salvato».
Come l’hanno curata a Kathmandu?
«La sonda che mi hanno inserito ha raggiunto facilmente il blocco e l’anticoagulante ha fatto effetto. Sono stato subito meglio: ho letto un sacco di sciocchezze, sembrava stessi per morire. Nel nostro ambiente molti godono, se qualcuno sta male: spiacente, ma tra quattro settimane tornerò ad allenarmi e già penso alle prossime spedizioni».
Quali?
«La prima invernale di un Ottomila in stile alpino è solo rinviata. Il prossimo autunno spero di ritentare il Manaslu per la settima volta. Lo farò in una stagione più dolce, per preparare poi l’ascesa d’inverno. So che è possibile, dunque irrinunciabile».
Perché?
«Per me è la chiusura di un cerchio. Le invernali himalayane in stile alpino, senza ossigeno e senza corde fisse, sono l’ultimo muro dell’avventura ancora da abbattere. Per l’alpinismo travolto dal turismo industriale d’alta quota, gli Ottomila in inverno, saliti in modo leggero, pulito e onesto, rappresentano l’unica rinascita possibile: e un più vasto messaggio umano».
A cosa si riferisce?
«Sulle montagne più alte della Terra, come negli oceani, le conseguenze del surriscaldamento del clima sono impressionanti. Dove dieci anni fa mettevo i ramponi da ghiaccio a quota 6 mila, oggi li metto a 7 mila. O si accetta di immergersi nella natura a impatto zero, o esplorarla diventa un’azione immorale. La solitudine essenziale dello stile alpino, su ogni vetta, è la sola via accettabile. I giovani lo capiscono: per questo ero sul Mera Peak con uno sherpa di 19 anni».
Perché ha scelto quella montagna?
«Se riuscirò a salire il Manaslu d’inverno in stile alpino, per me sarà l’ultimo Ottomila. Al suo campo base, in varie riprese, ho trascorso oltre due anni di vita. Ero sul Mera Peak perché poi mi concentrerò sulle ascese di 6 e 7 mila mai saliti, lungo vie nuove. Esplorazione e avventura possono rivelarsi universi ancora ignoti».
Anche per gli sponsor?
«Io non salgo più per lavoro, ma per amore della lontananza. Mi sento vivo solo quando sono dove nessuno mi può raggiungere. Anche questa volta ho pagato tutto di tasca mia».
Che Natale passerà?
«In famiglia, senza precedenti per me. Il mio terzo figlio ha due anni: ancora non capisce perché in dicembre sono a casa. L’Ottomila più pericoloso è vivere con gli altri».