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 2025  dicembre 23 Martedì calendario

Intervista a Michele Mirabella

«La telefonata più strana ricevuta da uno spettatore di Elisir? Un tizio che voleva parlare dell’influenza degli astri sui calli. Gli chiesi di mandarmi la documentazione in suo possesso. Rispose: le mando direttamente i calli? Replicai: no, quelli se li tenga».
Michele Mirabella è lo storico conduttore del programma di Rai3 dedicato alla salute, ma anche molto altro. «Nasco uomo di teatro, innanzitutto regista, in fondo la mia conduzione di Elisir è un’applicazione della tecnica recitativa alla dottrina scientifica: mi occupo di scienza perché, da teatrante, sono capace di interpretare. Se un medico si mettesse a condurre un programma televisivo, sarebbe a mio avviso di una noia mortale. Comunque, sul mio biglietto da visita, posso scrivere solo il nome e il cognome».
Non faccia il modesto: ha recitato in palcoscenico, nel cinema, firmato la regia di opere liriche tra le quali, coincidenza, «L’elisir d’amore», inoltre ha condotto programmi radiofonici di successo. Per non parlare della laurea in Lettere e filosofia, di quella honoris causa in Medicina...
«E pure una in Farmacia, che non ho mai capito perché me l’abbiano data...».
Ma la storia dei calli com’è andata a finire?
«Io non so come abbia fatto quel signore a trovare il mio numero di cellulare, dato che non è facilmente reperibile. Lì per lì ho creduto a una burla, invece non lo era affatto! Tanto che insistette e gli ho ripetuto che non ci interessava il reperto, cioè i suoi calli. Lui ebbe un’esitazione, non capiva il senso della mia battuta, poi deve essersi accorto che la sua era una richiesta assurda. Però, a proposito dei calli ho un particolare ricordo».
Ce lo racconti.
«Ero un bambino di Bitonto, paese dove sono nato e vissuto nei primi anni della mia vita. Durante una delle varie fiere che si svolgevano in loco, una volta si presentò proprio un callista: allestì la sua baracca dove ospitava i contadini che volevano levarsi i duroni dai piedi. I poveretti si sottoponevano all’operazione tra urla e improperi, ma il callista, nel suo ruolo di medico con tanto di colletto bianco, non buttava via i “reperti”, li metteva dentro a un contenitore di vetro, chissà perché. Io li guardavo galleggiare in una sorta di liquido trasparente, sembravano delle grandi olive... facevano un po’ schifo».
Il suo interesse per la medicina quando è nato?
«Ho sempre adorato il mestiere del medico dal punto di vista teatrale. La mia vecchia zia Maria, bitontina come me, quando aveva un mal di testa, mi mandava a chiamare il medico condotto, don Ciccio. Sembrava un nobile spagnolo, alto, austero e, quando gli dicevo di venire dalla zia malata, mi chiedeva con tono attoriale: “Dimmi, che è successo? Perché vivere si vive, la malattia succede”. Una risposta da palcoscenico».
Quando era piccolo e le chiedevano: cosa vuoi fare da grande? Che rispondeva?
«Per evitare gli abbracci e soprattutto i baci dei compaesani che puzzavano di fumo, di aglio o del baccalà del giorno prima, mi tenevo distante da loro e attaccavo delle filippiche divertenti: loro ridevano a crepapelle e così riuscivo a evitare gli abbracci e i baci. Poi mio padre interveniva dicendo: Michele vuole fare solo una cosa, il teatro».
Un papà partecipe della sua innata passione?
«Mio padre era, sì, divertente, però anche manesco: un militare tutto d’un pezzo e, quando ne combinavo qualcuna, me le dava di santa ragione. Però una volta mi ha graziato».
Cos’era successo?
«Ormai diciottenne, avevo organizzato una festa con un gruppo di amici perdigiorno, come il sottoscritto, nella nostra villetta di famiglia vicino a Bari. Purtroppo mi ero dimenticato le chiavi del cancello per entrare nel giardino, da cui accedere all’interno della casa. Cominciammo a scavalcarlo, tra risate, schiamazzi... la solita cagnara dei ragazzi. Un vicino di casa, di quelli che non si impicciano mai dei fatti loro, avvertì mio padre dei nostri scavalcamenti. La mattina dopo, all’alba, mi venne a svegliare con in mano una frustona. Mi alzai di corsa e cominciai a correre per tutta casa, mentre i miei fratelli e sorelle spiavano divertiti e mia madre pregava la Madonna di Pompei...».
Come andò a finire?
«A un certo punto, esausto io, ma esausto lui, mi bloccai dietro al tavolo della cucina e esclamai: babbo, trattiamo! E lui rispose: ma vai a quel paese e scoppiò a ridere».
Non essendo più un ragazzo e, ormai, da esperto in campo medico, qual è il suo rapporto con le malattie?
«È vero, non sono più quel ragazzo ma, in proposito, innanzitutto preciso che le età della vita sono tre: la giovinezza, la vecchiaia e... come te li porti bene. Quando mi chiedono quanti anni ho, rispondo: il necessario. Fatta questa premessa, sono stato in passato molto ipocondriaco, fino a quando ho cominciato Elisir e ora lo sono meno a ragion veduta. L’ipocondriaco è uno che sa poco di medicina. Quando cominci a capirne di più, razionalizzi, non hai più paura, affronti il problema, cerchi il rimedio e magari lo trovi. L’ipocondriaco è un ignorante in materia».
L’intelligenza artificiale può essere utile per scoprire nuovi rimedi?
«Può essere preziosa, se governata dalla nostra intelligenza, quella vera, che ci solleva i necessari dubbi. Altrimenti, può tramutarsi in stupidità artificiale che, a volte, è divertente. Per esempio, quando genera i video dove si vede Trump che sparge escrementi sulle manifestazioni contro di lui».
Lei è un assiduo frequentatore dei social network?
«Assolutamente no. Non sono interessato a sapere quanti ex compagni delle elementari o del liceo sono ancora vivi e che lavoro fanno. I social, per me, potrebbero non esistere. L’unico a cui mi sono avvicinato tempo addietro, è stato Twitter: mi divertiva la parola cinguettio e, a volte, l’ho utilizzato per condividere qualche mio pensiero, dando sfogo al mio snobismo. Ma ho abbandonato il cinguettio, ho poca dimestichezza col cellulare, con cui a mala pena riesco a fare qualche telefonata».
Guarda spesso la televisione?
«A volte la guardo spenta, come fosse una scultura moderna. Quando la accendo, scelgo i programmi: sono molto critico perché, essendo un lavoratore della tv, so come si fa e cosa c’è dietro lo schermo».
Tra i vecchi amici, oltre a Renzo Arbore, che ricordo ha di Massimo Troisi, quando la scritturò per un ruolo nel suo film «Ricomincio da tre»?
«Durante la lavorazione del film, mi venne a trovare a casa che avevo cambiato da poco e ancora non avevo messo in ordine i miei libri: erano circa 300 volumi, sparsi in giro. Massimo, attonito, mi chiese sgomento: li hai letti tutti? Risposi: molti ne ho letti, molti prima o poi li leggerò, molti altri non li leggerò proprio. E lui: beh, certo, loro so’ assai, tu sei solo!».
E il rapporto con Paolo Villaggio?
«Con Paolo ho fatto due film: sul set partoriva le idee più balzane per mettermi in imbarazzo. Una volta mi invitò a seguirlo a Cascia, la città di Santa Rita: doveva tenere un incontro col pubblico. Le due guide che ci accompagnavano mi chiesero se io ero credente: sì, lo sono, risposi. Paolo, che aveva ascoltato la mia risposta, mi prese in disparte e, con aria pensierosa, mi disse: Michele, ma ci credi davvero? E io: beh, ci provo. E lui: beato te».
Ma lei ha recitato anche con Eduardo De Filippo...
«Recitare è una parola grossa... in un suo spettacolo al Teatro Piccinni di Bari, feci la comparsa: l’unica battuta che dicevo era “Evviva!”».
Si è declinato in tanti mestieri. Ce n’è uno che le manca?
«Sì, il carabiniere: da figlio di un ufficiale, sin da bambino mi piaceva l’uniforme. Ma mi accontento di Elisir: quando c’è la salute, c’è tutto...».