Corriere della Sera, 23 dicembre 2025
Renzo Pegoraro, medico e sacerdote: «La vita è una partita di calcio. Confido nel secondo tempo»
Il Natale per Renzo Pegoraro non cade solo il 25 dicembre. Questo medico, che è anche sacerdote, ha il compito di fare in modo che sia Natale tutti i giorni, «perché è la festa della vita e, finché nasce un bambino, ci sarà ancora speranza», dice. È a lui, studioso di bioetica abituato a calibrare le parole con la stessa cautela del primario nel formulare una diagnosi, che Leone XIV ha affidato la presidenza della Pontificia accademia per la vita, istituita da Giovanni Paolo II nel 1994. A meno di tre settimane dall’elezione, è stata la prima nomina di papa Prevost al vertice di un organismo della Santa Sede, che fra i 60 accademici ordinari, e insieme ad altri 99 accademici corrispondenti, vede due premi Nobel per la medicina: la biochimica statunitense di origini ungheresi Katalin Karikó, che con le sue scoperte ha reso possibile lo sviluppo dei vaccini a mRna contro il Covid-19, e il ricercatore giapponese Shinya Yamanaka, che è riuscito a ricavare cellule staminali pluripotenti da cellule adulte comuni. Per statuto l’accademia è aperta a non cattolici e non cristiani. Include due ebrei, due greco-ortodossi e un musulmano dell’Università al-Azhar del Cairo, la più prestigiosa dell’islam sunnita. «Sono ammessi persino gli atei, purché riconoscano il valore fondamentale della vita umana, la dignità intrinseca di ogni persona e l’attenzione verso i più vulnerabili», spiega monsignor Pegoraro, che è anche presidente emerito della Società europea di filosofia della medicina e della sanità.
Ma lei voleva essere medico o prete?
«Medico. Ho studiato e mi sono laureato all’Università di Padova per questo».
Allora com’è che la ritrovo con la veste talare anziché in camice bianco?
«La seconda vocazione ha prevalso sulla prima. Sono cresciuto in parrocchia a Padova e nell’Azione cattolica diocesana con l’assistente don Lucio Calore».
Ha avuto un mentore nella medicina?
«Almeno tre. Il professor Mario Austoni, docente di semeiotica, che aveva una rara capacità di approccio al paziente e un’abilità diagnostica formidabile, e i luminari Paolo Palatini e Achille Pessina, specialisti nella cura dell’ipertensione».
Leggo dal dizionario: «Vita, spazio di tempo compreso tra la nascita e la morte». Per lei è solo questo?
«No, vita è tutto ciò che possiamo definire dinamismo. Qualcosa che nasce, si sviluppa e, purtroppo, finisce. Ha una base organica, certo. Ma l’uomo non è riducibile a pura biologia. È anche psiche, è anche spirito, è anche biografia. Perché possiede un corpo e un’anima».
Quando comincia la vita?
«Quando il gamete maschile, lo spermatozoo, feconda l’ovulo femminile, lì ha inizio una nuova vita umana. Lo zigote che si forma ha un assetto genetico proprio, specifico, individuale, appartenente alla specie Homo sapiens. Nessuno lo mette più in dubbio. I dibattiti nascono quando parliamo di persona. La Chiesa riconosce che la vita merita fin dall’inizio la tutela e il rispetto che sono dovuti a ogni essere umano».
Il tasso di fecondità è sceso al minimo storico: 1,18 nascite per donna. Perché gli italiani fanno sempre meno figli?
«Come in tutti i fenomeni complessi, non vi è una risposta univoca. Pesano le ragioni economiche e la carenza di servizi adeguati per la coppia con prole. Ma vi è pure una questione sociale: in che modo la collettività valuta una nuova vita? Ci sono anche coppie che hanno altre priorità, dal tempo libero ai viaggi».
L’Italia era povera eppure faceva figli.
«Nel dopoguerra investiva sul futuro, che oggi invece scarseggia. Il mondo è in preda a una crisi di nervi: guerre, eco-ansie, insicurezze occupazionali, povertà. Quando domina la paura, un figlio o una figlia vengono percepiti più come un problema che come una gioia».
Approdati nel nostro Paese, persino gli immigrati procreano di meno.
«Il fenomeno è noto da anni. C’entrano gli assetti familiari: arrivano solo i maschi o solo le femmine. Ma c’entra anche il calo della fertilità, sul quale incidono alimentazione e fattori ambientali. Da innumerevoli studi condotti a livello globale, risulta che la capacità riproduttiva degli uomini sia diminuita drasticamente. Nell’ultimo mezzo secolo il conteggio degli spermatozoi si è dimezzato in tutto il mondo, con un ritmo di declino più che raddoppiato a partire dal 2000».
«È come se la natura si stesse ritirando in disordine dal Vecchio Continente, considerato ormai sterile e perduto», scrissi dieci anni fa in un mio libro.
«Immagine suggestiva, la condivido. La sessualità è diventata problematica, ambigua, ha assunto forme edonistiche che talvolta sfociano nella violenza. Scarseggiano l’amore, la positività, la fiducia. C’è un atteggiamento invernale verso la vita. Vediamo se arriva la primavera».
Dipenderà anche dal sesso a distanza, vissuto più sui display che nella realtà?
«Le persone fanno più fatica a incontrarsi e a capirsi. Ciò riduce la capacità di generare vita e di affrontare le varie stagioni dell’esistenza, avendo presente che si vive, non si sopravvive».
So che lei non è molto tecnologico.
«Lo sono il giusto. Uso Internet, mail e smartphone».
Però rifiuta i messaggi su WhatsApp.
«È pubblico o privato WhatsApp? Ho forse l’obbligo d’installarlo?».
No di certo.
«Motivo in più per astenermi. Qualora vi fosse una app pubblica, la userei».
L’intelligenza artificiale come influenzerà la medicina in futuro?
«È molto veloce e pervasiva, la sta già influenzando in ambito diagnostico, terapeutico e prognostico. Rischia di svuotare il ruolo del medico. Bisognerà vigilare affinché negli ospedali si agisca con l’aiuto dell’Ia, non sotto il suo dominio».
Non crede che, quando non vi saranno più fondi per il welfare, i vecchi verranno accompagnati verso l’uscita?
«Mi auguro proprio di no. Gli anziani non sono consumatori di risorse, anzi hanno contribuito a crearle. Dovremo stare attenti a impedire che l’eutanasia possa diventare un metodo per l’alleggerimento dello stato sociale».
Il suo confratello don Luigi Maria Verzé progettava nel Veronese un ospedale in cui far vivere le persone fino a 120 anni, adesso si studia come farle morire.
«La medicina aiuta a sconfiggere malattie e cronicità, a offrire risposte sempre più proporzionate al bene complessivo del paziente. Il che postula che siano evitate forme di accanimento terapeutico, ma anche di abbandono o di eutanasia quando le infermità si aggravano».
Papa Francesco parlava di «cultura dello scarto». Gli anziani, nella mentalità sociale ed economica corrente, sono considerati del tutto inutili.
«Non solo gli anziani. Anche i disabili e coloro che non riescono a reggere il passo di un mondo accelerato dalle nuove tecnologie. Chi resta indietro diventa uno scarto. Lo stesso i giovani con disagi psicologici e problemi di salute mentale, considerati un peso o un pericolo».
Nel V secolo avanti Cristo il Giuramento di Ippocrate vietava al medico di fornire veleni. Oggi gli vengono sollecitati per il fine vita. Che cosa è cambiato?
«La società. Ma non è cambiato il medico, che agisce sempre per la vita e si ferma solo quando il paziente glielo chiede, anche se non approva la scelta».
Che significa il medico «si ferma»?
«Che rispetta la volontà del malato, però mai lo potrà aiutare con l’eutanasia o con il suicidio assistito».
Ha sottoscritto le Dat?
«No. Le Disposizioni anticipate di trattamento spesso sono difficili da applicare. Si esprimono da sani, in una situazione diversa da quella futura, e hanno un iter burocratico complicato. Ciò che della legge 219 del 2017 risulta più utile e praticabile è la pianificazione delle cure condivisa con il medico».
In concreto, che farebbe se un male incurabile le causasse atroci sofferenze?
«Difficile ragionare con i “se”, bisogna trovarcisi dentro. Per la verità ho visto persone che recuperano risorse fisiche e spirituali inaspettate nel momento della prova. Lo stesso spererei per me».
Le cure palliative sono erogate a tutti?
«È un diritto sancito dalla legge 38 del 2010. Alcune regioni sono più avanti di altre nel garantire la terapia del dolore, ma qui subentrerebbe un lungo discorso sull’adeguatezza della classe politica».
La sedazione palliativa profonda non è una forma mascherata di eutanasia?
«No, è prevista quando i sintomi risultano refrattari ai comuni trattamenti analgesici. Si fa con ben precisi farmaci e con il consenso del paziente, affinché gli siano risparmiate inutili sofferenze».
Piergiorgio Welby volle morire con la sedazione profonda e la sospensione della ventilazione artificiale, ma la Chiesa gli negò il funerale religioso.
«Qui il confine morale tra lecito e illecito è arduo. Vi fu un gesto pubblico che spinse la Chiesa a una scelta altrettanto pubblica. In circostanze diverse il rito religioso è sempre stato concesso, con l’attenuante che nella tragica scelta vi è l’incapacità di uscire da un male oscuro».
Come s’immagina la vita nell’aldilà?
«Per me la vita assomiglia a una partita di calcio. Stiamo giocando il primo tempo, che spesso ci lascia insoddisfatti. Io attendo il secondo tempo e anche i tempi di recupero, che nell’aldilà ci permetteranno di realizzare ciò che abbiamo lasciato incompiuto».
Le toccherà lavorare ancora.
«Eh no, è eterno riposo. È Dio che completa l’opera. Per dirla da moderato tifoso rossonero, spero nel risultato finale ribaltato, come il 2-3 nella ripresa di Torino-Milan lo scorso 7 dicembre».
E ritroveremo anche i nostri animali?
«San Paolo ci assicura di sì. L’intera creazione, che ora geme, sarà liberata per sempre dalla schiavitù della corruzione e della morte».