Corriere della Sera, 23 dicembre 2025
Giovanissimi, giornalisti, colpevoli di reati minori: Riad batte ancora il record delle esecuzioni
Nonostante le promesse di modernizzazione del principe ereditario Mohammed bin Salman, l’Arabia Saudita per il secondo anno consecutivo ha battuto il suo record per il numero di esecuzioni capitali e si posiziona al terzo posto nel mondo dopo Cina e Iran. Quest’anno sono state almeno 347 le persone messe a morte, rispetto alle 345 del 2024. La maggior parte dei detenuti saliti sul patibolo, secondo l’ong Reprieve, era stata condannata per reati non letali legati alla droga, illeciti penali che secondo l’Onu sono «incompatibili con le norme e gli standard internazionali». Come è successo agli ultimi prigionieri mandati a morte, due cittadini pakistani. Il 16 dicembre, invece, è stato ucciso Issam al-Shazly, un pescatore egiziano che era stato arrestato nel 2021 in acque territoriali saudite e aveva dichiarato di essere stato costretto a contrabbandare droga. Abdullah al-Derazi, 28 anni, è stato arrestato nel 2014 per aver partecipato alle proteste di piazza. È lui il condannato a morte numero 300, ucciso il 20 ottobre. Simili le accuse per cui il 21 agosto ha perso la vita un altro giovane. Jalal al-Labbad, 23 anni, era stato arrestato quando ne aveva solo 15 per essere sceso in piazza. «Terrorismo», avevano sentenziato i giudici, senza pensarci due volte. Ma il caso che ha fatto più scalpore è quello del giornalista Turki al Jasser, impiccato il 15 giugno dopo aver trascorso sette anni in carcere, ufficialmente per «terrorismo» e «tradimento», anche se i gruppi per i diritti umani hanno sempre sostenuto che a causare il suo arresto e poi l’esecuzione siano stati dei post su X in cui aveva denunciato casi di corruzione all’interno del regno saudita. Al-Jasser era molto noto nel mondo arabo: aveva seguito le «primavere» del 2011, si occupava anche di diritti delle donne e aveva gestito, dal 2013 al 2015, un blog assai seguito.
«L’Arabia Saudita ora opera nella più totale impunità, con una repressione brutale e arbitraria che coinvolge persone innocenti che vivono ai margini della società», ha dichiarato Jeed Basyouni, responsabile di Reprieve per il Medio Oriente e il Nord Africa. Secondo l’ong la tortura e le confessioni forzate sono ormai «endemiche» all’interno del sistema giudiziario penale saudita. «Sembra quasi che non importi loro chi giustiziano, purché trasmettano alla società il messaggio che esiste una politica di tolleranza zero su qualsiasi argomento di cui parlino, che si tratti di proteste, libertà di espressione o droga», ha aggiunto Basyouni. L’uso della pena capitale come strumento di repressione politica e controllo sociale viene denunciato anche da Amnesty International e Human Rights Watch.
Nel 2017 Mohammed bin Salman, divenuto principe ereditario, annunciò di voler portare l’Arabia Saudita nel XXI secolo, allentando le restrizioni sociali e mettendo a tacere le critiche. Qualche passo avanti è stato fatto. La polizia religiosa è stata eliminata dalle strade e le donne possono finalmente guidare. Ma la situazione dei diritti umani è disastrosa. Nel 2018, anno in cui è stato ucciso ad Istanbul il giornalista Jamal Ahmad Khashoggi, Mbs aveva assicurato che il regno stava lavorando per ridurre al minimo le esecuzioni. Invece è accaduto il contrario. Le famiglie delle persone mandate a morte non vengono informate nemmeno del giorno in cui il loro caro verrà ucciso, né viene loro consegnata la salma o comunicato il luogo della sepoltura. È ignoto anche il metodo con cui viene posta fine alla vita dei detenuti anche se si ritiene che siano decapitati o fucilati.
Deborah Bergamini, responsabile Esteri e vice segretaria nazionale di Forza Italia, ha invitato la Ue a far sentire la sua voce: «Stiamo parlando di un interlocutore stabile nei rapporti politici e commerciali. È una questione certamente complessa ma indifferibile. La libertà è un valore universale e la Ue, nella conduzione della politica estera, deve assumerla come cardine».