La Lettura, 21 dicembre 2025
Alessandro Baricco e Renzo Piano: «Genova Tapes»
ALESSANDRO BARICCO – Ho del mare negli occhi in questo momento. Un mare d’inverno, con quelle mille sfumature di verde, è acciaio? Perché sono a Punta Nave che è il riparo e il rifugio di Renzo Piano nella sua città, che è Genova. Ed è qui che abbiamo deciso di registrare questi Genova Tapes. Cioè, ci siamo detti: stiamo lì dove ci piace, sul sofà giusto, davanti al mare e chiacchieriamo. E quel che ha da dire Renzo sul suo mestiere, sul mondo che ha visto, su quello che non ha visto, sull’aria, la luce, la terra, che nella sua vita è riuscito a incrociare, tutto questo lo registriamo. Per quanto tempo non importa, ore! Facciamo quanto ha respiro il nostro raccontare. Io racconto un po’ di quello che mi succede quando i suoi pensieri scatenano i miei. Ma insomma, soprattutto io per primo, ma a nome di tanti, volevo ascoltare quello che lui ha capito di questo pianeta Terra. E così ci siamo messi lì e l’abbiamo fatto. E questo che state per sentire è il risultato di un pensiero, di un desiderio che abbiamo coltivato e poi fermato e poi realizzato.
Io sono Alessandro Baricco. Nella vita scrivo libri.
RENZO PIANO – Io sono Renzo Piano e nella vita faccio l’architetto.
ALESSANDRO BARICCO – Che luce Renzo!
RENZO PIANO – È fantastico. Una luce che ti resta dentro questa.
ALESSANDRO BARICCO – Questo è il mare. Perché nessuno lo può sapere ascoltandoci, ma noi abbiamo il mare negli occhi in questo momento.
RENZO PIANO – Le città di mare sono fatte così: per metà sono fatte d’acqua, per l’altra metà sono fatte di pietra. E Genova è proprio fatta così, è una striscia lunga, lunga, lunga. Il mare è subito profondo.
ALESSANDRO BARICCO – Lo so perché infatti la Liguria è ostile. Io ero un bambino pauroso, non sapevo nuotare. Qui in Liguria entravi nell’acqua, facevi due passi e sprofondavi nella Fossa delle Marianne. Ostile proprio.
RENZO PIANO – Sai, tu sei torinese, quindi hai un rapporto con il mare diverso. Io, specialmente nell’adolescenza, passeggiavo. Io sono nato non in centro, ma nella periferia ovest della città, che già è tutta una cosa speciale.
ALESSANDRO BARICCO – In questa direzione. È la parte fighetta?
RENZO PIANO – No, no. Mio padre era un piccolo imprenditore, aveva una dozzina di operai, quindi eravamo lì, ma comunque stavamo bene. E c’erano queste passeggiate la sera avanti e indietro con questo mare che è sempre lì, bello, brutto, luminoso, buio, non importa. E insomma, si cresce con questa idea che prima o dopo devi andare a vedere cosa c’è al di là del mare. Non c’è niente da fare, il mare ti dà una dimensione che ti resta dentro. E poi questo è il Mediterraneo, non è mica un mare qualsiasi, è un brodo di civiltà. Ci sono le voci nel Mediterraneo. Voci. Le voci sono profumi. Il mare Mediterraneo è un consommé di cultura. Lo senti, lo vedi, lo capisci. Poi c’è la luce, per l’appunto. E poi c’è ancora una cosa importante: sai, Genova ha il mare a sud. Quindi anche una piccola onda la vedi controluce. Questo cambia completamente le cose, perché essendo controluce, anche dell’onda piccola vedi la differenza tra luce e ombra. C’è una vibrazione. Sempre, sempre, sempre.
ALESSANDRO BARICCO – Io starei qua a guardare il mare insieme a te. E invece parliamone. La vita è pazzesca. Questa roba che non stiamo zitti è bellissima. Alla fine parliamo.
RENZO PIANO – Sì.
ALESSANDRO BARICCO – Certo, è incredibile come per esempio tu, poi, l’altro pezzo della tua vita lo passi a Parigi, dove la luce praticamente, tolte venti giornate qua e là, non esiste più. Tu stai in una piazza bellissima, place des Vosges, che però è chiusa, simmetrica, geometrica, proprio non c’è traccia di mare neanche nei pensieri della gente. Come te la cavi lì?
RENZO PIANO – Sì, Parigi è l’opposto. C’è l’acqua, solo che è acqua dolce. Non è lontana da casa mia la passeggiata lungo la Senna. Però è diverso perché non c’è il senso di infinito. E poi non lo so... Iosif Brodskij diceva che l’acqua rende le cose belle. Che sia salata non importa. Ed è vero, perché l’acqua dà una vibrazione alla luce. E poi restituisce il doppio delle cose. Cioè, vedi una casa, vedi una nave. E vedi anche il suo doppio.
ALESSANDRO BARICCO – Tutto moltiplicato per due.
RENZO PIANO – Sai che è una delle cose più forti nella mia memoria, perché poi ho avuto una vita che è sempre stata lontana da Genova, ma in altre città di mare. A New York, dove ho abitato. O Londra...
ALESSANDRO BARICCO – Londra... Il mare lì è lontano e vicino.
RENZO PIANO – Il mio ricordo più forte del mare, se devo dire, non appartiene al mare balneare, ma al mare del porto. Non ho molta voglia di parlare di queste cose, perché la mia sembra quasi nostalgia, ma vedi, a una certa età non è questione di nostalgia. Scopri che queste radici ci sono davvero. Sono molto forti, e il porto di Genova negli anni Cinquanta e Sessanta (oggi è diverso, anche se è magico come allora)... Vedi, non c’erano i container. In porto mio padre mi ci portava, era un uomo di terra però chissà perché alla domenica gli veniva voglia di andare a fare un giro in porto e mi ci portava. Prima la messa, poi in porto, poi a comprare le paste per il pranzo. Questo era il giro. E il «Corriere dei Piccoli»... Il porto era quasi una sua fissa. E quando giri per un porto, a proposito d’acqua, trovi un mondo straordinario, con questi bastimenti – non a caso in francese si chiamano bâtiment, edifici – che sono città in movimento. Vai in là e quando torni quel bâtiment non c’è più, è già partito, ne arriva un altro, è una cosa incredibile. E poi c’è da dire che questi edifici giganteschi, queste navi, non toccano mica terra. Galleggiano. E in porto tutto vola, tutto, tutto, tutto.
ALESSANDRO BARICCO – Sto capendo di più quella cosa che tu dici di te. Spesso, a proposito soprattutto della prima parte della tua vita professionale, tu osservi: «Io ho lavorato contro la gravità, cercando solo leggerezza, cercando di staccare le cose da terra». Leggerezza e trasparenza, diciamo. E adesso capisco che effettivamente molte delle tue, molti dei tuoi, come posso chiamarli... molti dei tuoi edifici, dei tuoi palazzi, delle tue opere, delle tue... Come le chiami tu?
RENZO PIANO – Le chiamo creature perché non sono mai le stesse.
ALESSANDRO BARICCO – Benissimo, molte delle tue creature galleggiano. Ecco cosa fanno.
RENZO PIANO – Sì galleggiano. Ma non credo di essermi appassionato alla leggerezza per qualcosa di molto intelligente. Sai, quando hai diciotto, vent’anni, vai all’università, incominci a pensare a queste cose e hai un’idea fissa, un chiodo fisso: fare in modo diverso rispetto a tuo padre. Verso mio padre, naturalmente, c’è da parte mia una grande riconoscenza, non c’è ombra di dubbio. Mio padre era un genovese straordinario. Non parlava, stava zitto. Però quando gli dissi che volevo fare l’architetto, lui mi guardò, tolse la pipa di bocca, era seduto in cucina mi ricordo, e mi disse: «Ma perché?». Fine della trasmissione. «Ma perché?», disse. E basta. Vedi, mio padre costruiva delle cose splendide ai miei occhi perché faceva pilastri che stavano su, mi portava in cantiere, mi faceva sedere su un mucchio di sabbia e mi diceva: «Stai lì fermo che è pericoloso». Lui aveva sei, sette, otto, dieci operai, non di più, sto parlando gli anni successivi alla guerra, la seconda parte degli anni Quaranta, il ’48, il ’50, il ’55... E lui aveva sempre la giacca, la cravatta e anche il cappello.
ALESSANDRO BARICCO – In cantiere.
RENZO PIANO – Lui mi diceva: «Stai fermo lì». Adesso non vorrei sembrare troppo nostalgico, però questa cosa mi è rimasta dentro con forza. Dunque per fare l’opposto rispetto a mio padre dovevo fare il giro completo perché queste cose lui le faceva col cemento e il mattone, roba pesante. Allora cosa fai? Insegui la leggerezza. Non che sia molto meglio della pesantezza, cosa c’entra. Poi devo dire che cammin facendo scopri che la leggerezza ha qualche vantaggio sulla pesantezza, non c’è dubbio. Però porti con te questa immagine del porto. E sai, i ricordi sono sempre un po’ esagerati. Io non so quante volte sono stato davvero in porto con mio padre. Probabilmente non più di dieci. A me, però, nella mia memoria, sembrano mille. Mi pare di esserci cresciuto in porto.
ALESSANDRO BARICCO – Come per me con mio padre alla partita. Che poi una volta gli chiesi: «Ma perché andavamo così spesso alla partita?». E mio padre: «Ma no, saremo andati due volte». Nella mia fantasia io avevo queste giornate con mio padre allo stadio. Ma chi le ha viste?
RENZO PIANO – Queste cose ti restano dentro. Come le visite in porto. Perché sai, allora veramente tutto volava. Non c’erano i container: quando le navi caricavano, e quindi galleggiavano, tutto volava. Una cosa assolutamente indelebile nella mia memoria risale a quando andavamo in Sardegna: ogni tanto, a primavera, mio padre ci portava in Sardegna. Aveva una Giardinetta mio padre. Beh, sai come la caricavano sulla nave? I portuali stendevano una specie di rete per terra, la giardinetta ci entrava in mezzo, loro prendevano i quattro capi della rete, come fosse un fazzoletto, e la tiravano su. Quindi questa Giardinetta volava sul bambino di otto anni, una Giardinetta che vola! Oltretutto scopri come è fatta da sotto e queste cose restano nella memoria. Ti rimane quindi questa idea della leggerezza. Io non credo che abbia per me ragioni così profonde. Sono più o meno queste, insomma. Di certo dovevo fare in modo diverso. Però poi, strada facendo, scopri altri pregi della leggerezza.
ALESSANDRO BARICCO – È rimasta comunque una tua cifra, diciamo estetica. A te piace di più qualcosa che sembra leggero e magari non lo è, qualcosa che sembra galleggiare piuttosto che qualcosa piantato pesantemente, ecco.
RENZO PIANO – Sì, e ci sono anche ragioni pratiche. Diciamo la verità, molti dei miei edifici galleggiano perché è meglio che siano come dei vascelli che volano. Ad esempio il Whitney Museum a New York, tanto per essere concreti. Sai, i miei amici mi chiamano geometra, ma non è per dileggio, per l’amor del cielo, ma con il Whitney praticamente non avevamo spazio. Eravamo a Downtown, New York, Washington Street, non c’era spazio, era il Mid Market, il terreno era pochissimo, ma era proprio di fianco all’acqua, all’Hudson River, che è una specie di fiume-mare, insomma una cosa mista. E quindi cosa fai? Costruisci una cosa che è un vascello che vola e quindi restituisci alla città una piazza che non c’è. Cioè crei lo spazio sotto. E sai, adesso cambio tono, ma una piazza, un luogo fisicamente aperto a tutti è da dove cominci sempre un progetto, non c’è niente da fare. Sarà perché sei italiano, sarà perché ti viene così, non c’entra niente con la leggerezza. Sai, l’architettura è una cosa strana, non è che risponda soltanto ai bisogni, che già è una grandissima cosa e ovviamente è la più importante, ma risponde anche al desiderio, ai sogni. Deve colpire l’immaginario, muovere emozioni. E in fondo questo togliere il peso dell’edificio, questo farlo volare, anche se poi non lo fai davvero volare... Il Whitney pesa più o meno ottantamila tonnellate, quindi non lo fai volare!
ALESSANDRO BARICCO – Sarebbe stato contento tuo padre! Però tu lo fai sembrare come una nave. E invece è una bestia.
RENZO PIANO – Il Beaubourg è una nave. Un’invenzione folle, fatta con il mio amico fraterno Richard Rogers, che non c’è più e questo mi addolora molto. Richard, che era italiano, nato in Italia.
ALESSANDRO BARICCO – Ma ti faccio una domanda, tu puoi anche rifiutarla o rigirarla a me, ed è su questa cosa della leggerezza. È un concetto che io condivido moltissimo: ho fatto interi spettacoli cercando di tener su gli attori, cioè non voglio che tocchino il palcoscenico, anche loro devono galleggiare, ma non so perché, io un porto non l’ho mai visto quando ero piccolo, figurati a Torino. Ebbene, non so perché, ma c’è qualcosa sotto questa ricerca di andare più in alto, di staccare da terra. Anche quando mi chiedono dei miei libri. Qual è il più bello? Qual è quello che più amo? Un mio modo di spiegare è che ci sono dei miei libri che io sento che staccano da terra, altri sono belli ma non staccano da terra, mentre invece alcuni lo fanno. Insomma, c’è questa roba della leggerezza che per me è un principio estetico ma in qualche modo dice anche molto di me. E la domanda che tu puoi anche rifiutare è la seguente: ma poi hai anche vissuto cercando di galleggiare? Parlo della vita che hai fatto, non di quella professionale. Anche lì cercavi di staccarti da terra? Com’è andata?
RENZO PIANO – Sai, sulla leggerezza, caro Alessandro, possiamo andare avanti per ore e ore.
ALESSANDRO BARICCO – Infatti non abbiamo fretta.
RENZO PIANO – Ci sono talmente tante dimensioni. della leggerezza. Una intanto è fisica: se sei un po’ zuccone, ribelle, il mestiere dell’architetto è battersi contro la forza di gravità. E credimi, è la forza più testarda tra le leggi della natura. La levitazione è una bella scommessa, è già qualcosa.
ALESSANDRO BARICCO – E questo in ufficio. Ma poi, nel resto della vita, come te la sei cavata con questa storia della leggerezza?
RENZO PIANO – Intanto l’unico sport in cui eccellevo quand’ero ragazzo era il salto in alto.
ALESSANDRO BARICCO – Vedi? E allora io non ho altro da dire.
RENZO PIANO – Ero uno stambecco. Sono riuscito a saltare un metro e ottanta, tantissimo. E a quei tempi poi si saltava con una tecnica che non era questa che si usa ora. Ma comunque è una sciocchezza. Però quello che succede è che crescendo, beh, intanto ti capita di leggere, di conoscere e leggere uno come Italo Calvino. A Parigi ci vedevamo spesso. E poi leggi, in quella tragica estate in cui se ne andò, il primo dei discorsi che fece per Harvard. Sulla leggerezza.
ALESSANDRO BARICCO – Una delle parole che lui aveva scelto.
RENZO PIANO – Le parole per...
ALESSANDRO BARICCO – Entrare nel futuro.
RENZO PIANO – La leggerezza. Lui studiò per bene questo concetto. Poi, naturalmente, cresci e ti capita anche di leggere Milan Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere. C’è qualcosa che ti tocca lì, che non ha a che fare con l’arte del costruire e forse nemmeno con l’arte del raccontare. È la pesantezza del vivere. Io non so come si può dire, ma la mia fantasia, e sono sicuro anche la tua e quella di tantissime persone, vola, vola. È leggera, è straordinaria. A me passano continuamente davanti agli occhi i paesaggi costruiti. Un edificio. Non solo vola, ma è anche leggero e trasparente, aereo. Respira. È una specie di araba fenice. Però quando allunghi il braccio non riesci ad acchiapparlo, non ci riesci, non ci riesci. Apprendi allora che il nostro vivere è pesante rispetto al nostro immaginare. Noi abbiamo un’immaginazione fervida, mica soltanto io e te, per l’amor del cielo. Sai quanta gente? I bambini? Straordinari! Tutti, tutti. C’è una distanza tale tra la capacità di leggerezza della nostra fantasia e la capacità di realizzarla. Allora quando allunghi la mano per afferrare l’araba fenice, il braccio è troppo corto. Te ne accorgi. E tutt’al più, se ti va bene, le strappi un paio di penne. Ma non di più. E allora vedi, la leggerezza è sostanzialmente quello che dice Milan Kundera nel suo romanzo bellissimo. La leggerezza, la passione, è per sopravvivere alla pesantezza del vivere, a tutto quanto è complicato, il proprio corpo, quel che ti succede, quello che non ti succede.
ALESSANDRO BARICCO – Ce l’hai fatta tu a scappare dalla pesantezza della vita?
RENZO PIANO – Mi capita.
ALESSANDRO BARICCO – Capita.
RENZO PIANO – Sai quando mi capita? Quando sono in barca, ma non voglio fare cose troppo strane. Ma in barca sì, in barca. Perché? Perché in barca, intanto non tocchi terra. Sei sollevato da terra e questo ha qualcosa di magico che succede nei momenti di silenzio. Capita. Nei viaggi! Prendi il volo. E in questa nostra chiacchierata, attesa e voluta, si affollano i ricordi. Mi vengono in mente. C’è una splendida poesia di Konstantinos Kavafis intitolata Itaca. Non è una lunga poesia, basta leggere un attimo, consiglio a chiunque di leggerla. E in questa poesia si parla di leggerezza dell’essere, perché si dice, vedi, che il viaggio è l’antitesi della pesantezza. Il viaggio. Dice Kavafis: cerca Itaca, ma non arrivarci troppo presto. Fai che il viaggio sia lungo e ricco di sorprese. Anche se incontri i Ciclopi e le ire di Nettuno. Ma fai in modo che il viaggio sia lungo. Conosci tante persone, visita tanti luoghi e poi quando alla fine arriverai a Itaca, magari sarai anche un po’ deluso da Itaca, ma non vuol dire. È il viaggio a essere stato importante. Il viaggio è leggero.
ALESSANDRO BARICCO – È vero, il viaggio per me è stato l’esperienza di minima frizione, aderenza, con la pesantezza della terra. Cioè quando io viaggio mi sembra di scivolare sul mondo con le persone. E non riesco a incartarmi.
RENZO PIANO – Allora, scusa, ho promesso di essere quel che sono e io sono un bâtisseur, non uso la parola italiana, costruttore, perché sembra strana. Sono un bâtisseur, ma parlando di costruire cosa succede? Che questa leggerezza si traduce anche in una cosa che si chiama anche trasparenza e luce. La luce è uno dei materiali, forse il materiale più importante che esista in architettura, nel costruire le trasparenze. La luce è straordinaria. Se tu costruisci un luogo pubblico, una biblioteca, ad esempio, un museo, naturalmente... Certo, se fai una sala per concerti è la musica che conta. Però quasi sempre in una casa, nel luogo dove siamo in questo momento, è fondamentale la luce. Prendiamo un museo. E non solo perché vedi meglio i quadri. Io ho fatto tante biblioteche. Qualche mese fa ero ad Atene nella biblioteca che ho costruito per la Fondazione Stavros Niarchos, la biblioteca di Stato di Atene. Era piena di luce, la splendida luce della Grecia. E dentro c’erano migliaia di ragazzi immersi nella luce. Non c’era un solo posto a sedere. Qualcuno era seduto per terra. C’era con me il direttore della biblioteca e gli dissi: «Ma fantastico! C’è tanta gente, c’è tanta gente». E lui: «Sì sì, ma soltanto la metà viene qui per i libri». Non sto glorificando l’architettura, sto glorificando lo stare assieme. I ragazzi vanno lì perché a loro piace stare assieme in quella luce. E quindi la dimensione della luce, della leggerezza – non vorrei apparire un po’ troppo teorico – come architetto dà una certa coerenza al tuo lavoro. La chiamerei una sorta di fil rouge, un filo rosso che ti conduce e che io non chiamerei stile e tu sai benissimo di cosa parlo. Perché lo stile è una gabbia dorata in cui ti inchiodi e da lì non c’è più uscita e sei fritto. Funzionerà anche per altre ragioni, ma sei fritto. La tua creatività viene ingabbiata dallo stile. No, c’è qualcosa di più profondo che ti appartiene e che continua a uscire fuori e che è emozionante. Ecco, allora, questa idea della luce che gioca e che cambia è una cosa che ti viene sempre in mente. Tu fai un grattacielo a New York, mi è capitato di fare il grattacielo del «New York Times». È stata un’avventura incredibile perché è stato subito dopo l’orrido fatto dell’11 settembre 2001. Bene, quell’edificio lì è fatto con delle barre di ceramica che riflettono i colori del cielo e New York è una città, come dire, fotosensibile. Cioè, dopo una pioggia tutto diventa blu e quell’edificio diventa blu. Alla sera, in un tramonto di sole, tutto diventa rosso, l’edificio diventa rosso. C’è questa idea di giocare con la luce, non solo come fenomeno interno, ma anche come presenza.
Lo Shard a Londra è un caso diverso, ma queste schegge di vetro leggermente inclinate sono esattamente quello che ti succede se tu ti guardi allo specchio ma invece che tenerlo in verticale davanti a te, inclini lo specchio un pochettino verso l’alto. Ovviamente non vedi più te, ma cosa vedi? Il cielo. Vedi le nuvole. Adesso, tutti sanno che Londra è una città dove il cielo cambia ogni cinque minuti, quindi è evidente: crei un edificio che è quasi fotosensibile e meteoropatico, non so se si può dire! E questa idea di lavorare con la luce come materiale essenziale dell’architettura è un’idea che chissà che non venga dal Mediterraneo. Non lo so, ma ho il sospetto che venga proprio da lì.
ALESSANDRO BARICCO – Alla fine torna tutto a questo mare. Hai sfiorato una cosa che per me è importante e quindi è l’occasione buona, in questa luce, davanti a questo mare, per farmela dire tutta. Ed è la cosa alla fine che insieme alla leggerezza io amo di più di quello che tu hai fatto, dei tuoi edifici. E tu una volta l’hai anche un po’ detta, proprio a proposito del fil rouge. Mi sembra che tu abbia detto una cosa del genere e cioè: «Se tu dopo il a Beaubourg vai a cercare “tuboni” nei miei altri edifici non li troverai». Mentre invece in molti altri artisti, e anche in molti architetti, tu trovi proprio quello, cioè la persona che fa i tuboni e li fa per molto tempo. Non lo sto svalutando, dico solo che è un modo. Invece la cosa che mi fa impazzire dei tuoi edifici è che potrebbero essere stati tranquillamente fatti da tre persone diverse, ma tu in realtà sai che c’è un fil rouge molto solido tra queste cose. E io mi sono anche segnato una frase che tu hai detto perché non la capisco. E allora mi sono detto: adesso vado là e Renzo me la spiega, mi riferisco a quando proprio tu hai detto: «Beh, se cercate i tubi non li troverete». E in effetti se io metto insieme il Centre Pompidou, il centro culturale che hai progettato in Nuova Caledonia e aggiungo lo Shard di Londra, allora lì la domanda è: com’è che riconosci una sola mano in queste tre creazioni? E il fatto che io la riconosco ma non so spiegarla è incredibile. Come adorabile è il fatto che non è una consapevolezza immediata, cioè non è che tu dici: certo, è tutto rosa che è la sua signature, la sua firma. E invece no, non è assolutamente così.
RENZO PIANO – È la differenza, secondo me, tra lo stile e la coerenza. Non voglio essere cattivo, ma lo stile è qualcosa che mi disturba, mi rammenta un po’ l’idea di un timbro che metti sulle cose per farti riconoscere, capito? È anche leggermente commerciale, se proprio devo dire. Ti viene bene una cosa e continui a farla. Ho capito, non c’è niente di male, ma non mi appartiene. Io ho sempre pensato e ho sempre sperato che appartenga alla vera cultura italiana un’altra cosa. Cioè, io sono nato nel 1937. Non sono stato un cineasta del neorealismo, naturalmente. Ma tu pensa a cos’è stato il neorealismo italiano dopo la guerra! Negli anni tra il ’45, il ’50, fino al ’55 e poi ancora. Il neorealismo è stato un’arte straordinaria, consisteva nell’andare nella realtà con la realtà, prendere una mano che si muove e farla respirare. Un viso... Il neorealismo è questo, è l’accettare che il terreno più fertile di ispirazione sia la realtà delle cose. Ma non è solo fertile, è anche un terreno sicuro. È l’antidoto all’accademia. A ripeterti, a fare la stessa cosa, un po’ per stile, un po’ per convenienza, un po’ per pigrizia, un po’ perché hai trovato la tua zona di conforto, comfort area, e lì te ne stai tranquillo. Ora, fare così è un mestiere leggermente corsaro, diciamoci la verità, su. È anche noioso. Allora cosa succede? Ti capita di fare la cosa più strana nella vita. Ti capita di fare un edificio in Nuova Caledonia, in mezzo al Pacifico, per ricordare un uomo, Jean-Marie Tjibaou, che fu ucciso da uno dei suoi seguaci perché non difendeva abbastanza l’autonomia dei canachi rispetto alla Francia. Boh. Succede questo fatto. Va bene, allora se lì e diventi anche tu uno dei canachi. Diventi quella cosa lì e trovi nella loro cultura il rispetto per i vecchi. È fondamentale. Anche noi ce l’abbiamo, anch’io ce l’ho. Nel frattempo sono diventato vecchio...