La Lettura, 21 dicembre 2025
E lo scimpanzè si fa un cicchetto
L’alcol fa molte cose: ci fa superare la timidezza, mette allegria, ci aiuta a creare contatti che altrimenti sarebbe difficile avere e sa persino mitigare «il male di vivere». Tutto questo è ben conosciuto ed è così fin dall’antica Grecia: Anacreonte canta il vino e l’amore (come più tardi Ovidio) e Alceo nelle liriche scrive che «il figlio di Sèmele e di Zeus diede all’uomo il vino per dimenticare i dolori». E c’è di più: dopo la caduta di Troia, Enea guida i compagni attraverso il Mediterraneo per raggiungere l’Italia ma la cattiveria di Giunone travolge le navi e i poveretti si ritrovano tra i flutti («rari nantes in gurgite vasto»); poi Nettuno placa le onde, i naufraghi raggiungono la spiaggia della costa africana, pallidi, tremanti, affamati.
Enea non li abbandona, si inoltra nel bosco con arco e frecce e trova il modo di abbattere sette cervi, con la precisione di chi sa di dovere qualcosa ai suoi compagni, che lo aspettano con ansia. Alla vista delle prede i naufraghi si rianimano, accendono un fuoco così da poter cucinare ed è allora che Enea tira fuori le anfore di vino che gli ha donato il re Aceste quando erano in Sicilia. A quel punto, i volti dei troiani riprendono colore, la gioia prevale sullo sconforto, ricominciano a sperare: è l’effetto del vino.
Ma vi siete mai chiesti quando comincia questo rapporto dell’uomo con il vino? Non sarà per caso un retaggio del passato, e caso mai di un passato anche molto lontano? Forse è proprio così. L’interesse dell’uomo moderno per l’alcol potrebbe venire da un antenato comune, vissuto milioni di anni fa, ma chissà che non ci fosse qualcosa addirittura prima.
Studiosi dell’Università di Berkeley, in California, che si stavano occupando delle abitudini alimentari degli scimpanzé, si sono accorti di come questi animali abbiano una predilezione per la frutta matura, tanto che ormai è diventata la sorgente principale di cibo, per lo meno per quelli che vivono nel loro habitat naturale delle foreste tropicali dell’Africa. La fermentazione di frutta molto matura genera alcol, ma quanto? I ricercatori l’hanno misurato e hanno concluso che gli scimpanzé – anche le femmine – consumano almeno 14 grammi di etanolo puro al giorno (tenete conto che questa è proprio la quantità di alcol di uno «standard drink» in America, mentre in Europa un classico drink ammonta a più o meno 10 grammi; e poi si dovrebbe tener conto del fatto che lo scimpanzé pesa circa 50 chili ma un uomo ne pesa 70).
Per sapere fino a che punto l’interesse di questi animali per l’alcol faccia parte di abitudini consolidate ci si doveva chiedere se gli scimpanzé scegliessero deliberatamente i frutti più maturi – quelli più ricchi di zucchero che i lieviti fermentano in alcol – o se questo avvenisse per caso. Se fosse così, come farebbero ad orientarsi verso la frutta più matura, quella più ricca di alcol? Gli scimpanzé, come del resto gli altri primati della foresta, si orientano con l’odore – quello dell’etanolo, che è volatile e arriva con il vento anche attraverso la fitta vegetazione delle foreste – ed è quindi l’odore dell’alcol che li porta alla frutta fermentata. Tutto questo naturalmente non succede ai loro «colleghi» in cattività, che mangiano quello che gli si dà, senza poter scegliere. C’è però chi ha sfruttato questa circostanza per fare un esperimento con gli animali dello zoo. «Proviamo – si sono detti i ricercatori — a metterli di fronte a frutta non fermentata e a frutta fermentata, e vediamo quello che preferiscono. Manco a dirlo, gli scimpanzé scelgono sempre prima la frutta fermentata per poi passare all’altra. La maggior parte di queste ricerche sono state fatte a Ngogo, Uganda, nel Parco nazionale di Kibale, dove vivono grandi comunità di scimpanzé. Lì si è capito che, quando salgono sugli alberi, scelgono i fichi più maturi; ma anche nel Parco nazionale di Taï, in Costa d’Avorio, gli scimpanzé prediligono i frutti che sono caduti da qualche giorno e hanno avuto il tempo di maturare per terra piuttosto che quelli appena caduti; questi ultimi si ritrovano intatti, senza segni di morsi. Ce ne sono tanti di frutti ad alto contenuto di alcol – per esempio un fico chiamato Ficus mucuso e il frutto simile a una susina della Parinari excelsa, una pianta arborea tropicale.
L’alcol lo si elimina con le urine; lì lo si può misurare e questo consente di stimare la quantità ingerita. Gli scienziati l’hanno fatto e adesso sappiamo quanto alcol assume ogni animale studiato. Raccogliere le urine degli scimpanzé mentre dormono sugli alberi, però, non è un’impresa facile – serve una sorta di ombrello – ma sono riusciti a farlo e a misurare i metaboliti dell’alcol. Ne viene che la quantità consumata ogni giorno è tutt’altro che trascurabile.
Resta il fatto che non si vedono in giro scimpanzé intossicati dall’alcol, insomma scimpanzé ubriachi, nemmeno nelle foreste. E questo si presta ad altre considerazioni. È verosimile che per intossicarsi, questi animali dovrebbero mangiare così tanta frutta da creare una distensione dello stomaco, e questo darebbe dolore, ma gli animali non lo farebbero certamente. E noi? Abbiamo preso da loro nel corso dell’evoluzione? Forse sì, ma poi siamo stati capaci, come fanno loro, di non superare il limite? La domanda è di estremo interesse, tanto che Robert Dudley qualche anno fa ha pubblicato il libro The Drunken Monkey: Why We Drink and Abuse Alcohol (University of California Press, 2014), insomma «le scimmie ubriache: perché noi abusiamo dell’alcol». L’ipotesi è che l’attrazione dell’uomo per l’alcol derivi proprio dal fatto che i nostri antenati erano dipendenti dalla frutta come fonte principale di nutrimento; anche piccole scimmie, a parte gli scimpanzè, consumano tendenzialmente frutta fermentata, ma allo stesso modo altri animali sono attratti dall’alcol. Ci sono ragioni genetiche per questo. È stato molto interessante scoprire che l’interesse ed eventualmente la dipendenza dall’alcol va così indietro nel tempo. L’antenato comune a cui gli scimpanzé hanno verosimilmente trasmesso la voglia di alcol è vissuto sette milioni di anni fa (va detto che al contrario dell’alcol, la dipendenza da droghe d’abuso è relativamente recente nella storia dell’uomo, salvo che già gli egizi avevano scoperto che l’oppio sapeva facilitare il passaggio «all’aldilà» e nessun faraone si sarebbe mai fatto seppellire senza un po’ di papaveri d’oppio, mentre nell’antica Roma persino gli imperatori consumavano tanto oppio quanto vino).
Il passo successivo per i ricercatori di Berkeley che si sono lanciati in quest’avventura è stato quello di esplorare la possibilità che condividere con il gruppo frutta, che contiene alcol, abbia contribuito alla tendenza di questi animali a socializzare. Che sia così è dimostrato proprio dal lavoro di Aleksey Maro e Robert Dudley. Le coltivazioni di fichi a Ngogo attraggono diversi gruppi di scimpanzé che cominciano ad avere importanti interazioni sociali tra loro, ci sono maschi e femmine, e c’è un aumento delle attività collegiali come il pattugliamento ai confini del territorio e le battute di caccia. E, pensate un po’, tutto questo succede durante i periodi in cui è disponibile e si consuma la frutta fermentata.
Non si sa se c’è un rapporto preciso fra la quantità di alcol che assumono e questa attività, ma certo i «party» coincidono con alcuni periodi dell’anno in cui si trovano più facilmente quei frutti.
Il consumo di alcol per gli scimpanzé e per altri animali dei tropici (la frutta matura piace persino agli elefanti) è considerevole e non certo occasionale, e questo si associa alla capacità di metabolizzare l’alcol attraverso tre coppie di geni che codificano per enzimi responsabili del catabolismo dell’etanolo nel fegato. Uno di questi enzimi è condiviso da scimpanzé e uomo moderno.
Guardando a questi fenomeni con l’occhio dell’evoluzione, si potrebbe pensare che sia stata anche la frutta ricca di alcol una delle ragioni (fra le altre) che ha spinto i nostri antenati di milioni di anni fa a socializzare fra loro. Attenzione però: l’evoluzione non giudica e non discrimina, non è una categoria morale, la dobbiamo prendere per quello che è, sta a noi riconoscerne il valore e fare poi delle scelte che siano coerenti con le conoscenze di oggi.
L’entusiasmo che ha generato la vista del vino nei compagni di Enea, stremati dalla fatica, non può essere un alibi per i nostri comportamenti di oggi.