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 2025  dicembre 21 Domenica calendario

Raphael Lemkin. Un ostinato che ideò il termine genocidio

Nel dibattito che si è avuto nell’ultimo periodo attorno all’uso del termine genocidio, sia per l’aggressione all’Ucraina sia per la distruzione di Gaza, si è ricordato qualche volta il nome di Raphael Lemkin, il giurista ebreo polacco che inventò nel 1944 quella parola, che voleva fosse anche un concetto nuovo della giustizia internazionale. Su Lemkin, poco noto in genere e da noi assolutamente sconosciuto, esce adesso una preziosa e bella biografia, che è anche una riflessione critica sulle trasformazioni che ha conosciuto, nel secolo ventesimo, la «coscienza giuridica delle nazioni». Girolamo De Michele, insegnante in un liceo di Ferrara, autore di libri sulla scuola, sulla filosofia, sul rapporto tra musica e politica, di numerosi romanzi e, da ultimo, della vita e morte di don Minzoni, ha affrontato con coraggio e con un risultato al tempo stesso utile ed eccellente, una figura complessa ed essenziale del momento centrale in cui, tra la fine della guerra e l’immediato dopoguerra, si gettano le basi del nuovo e rivoluzionario diritto internazionale oggi messo sotto attacco.
De Michele segue l’infanzia ebraica di Lemkin, l’antisemitismo violento nella sua terra d’origine, tra la Polonia e l’Ucraina, l’educazione familiare e la passione per il romanzo Quo Vadis? di Henryk Sienkiewicz, la Prima guerra mondiale e il successivo conflitto russo-polacco, l’università a Cracovia e poi a Leopoli. Qui nel 1921 discute col suo professore e i suoi colleghi l’assoluzione da parte di un tribunale tedesco di Soghomon Tehlirian, che ha ucciso a Berlino Talât Pasha, il capo del governo ottomano che aveva pianificato il genocidio degli armeni. E proprio da quel dibattito nasce la spinta a cercare nel diritto internazionale una risposta a come fare i conti con l’uccisione in massa di un gruppo umano.
Autore di studi sui codici penali sovietico e fascista di fine anni Venti e sulla riforma del diritto penale nazista del 1934, Lemkin partecipa a numerosi convegni internazionali di giuristi, suggerendo l’introduzione del termine «barbarie» che non verrà preso in considerazione, scrivendo come si tutela la pace col diritto penale interno e criticando nel 1937 la proposta dei giuristi tedeschi di formalizzare il Führerprinzip («principio del capo») al congresso di diritto comparato. Lo scoppio della guerra e l’invasione della Polonia lo spinge alla fuga, prima a Vilnius, poi in Svezia dove raccoglie materiale e documenti sulle stragi naziste e sulla legislazione di occupazione, infine alla metà del 1941 negli Stati Uniti, presso la Duke University a Durham, venendo assunto nel giugno 1942 dal Board of Economic Warfare di Washington. Nel gennaio del 1944, quando iniziano i lavori della War Crimes Commission consegna il suo lavoro, Axis Rule in Occupied Europe il cui nono capitolo si chiama «Genocidio». Erano già tre anni che circolavano notizie sempre più dettagliate sui campi di concentramento e di sterminio: adesso esiste anche un nome per definire e connotare l’azione nazista di sterminio degli ebrei d’Europa.
Il nuovo concetto suscita perplessità tra alcuni grandi giuristi, Hans Kelsen che è il più autorevole, ma anche Hersch Lauterpacht che darà sostanza ai «crimini contro l’umanità», la più rilevante novità nelle incriminazioni del processo di Norimberga, che delude Lemkin proprio perché il genocidio non vi ha trovato posto. Lemkin collabora con i giuristi delle grandi potenze presenti a Norimberga, ma cerca l’appoggio dei piccoli Stati che fanno parte delle neonate Nazioni Unite (su 53 Stati 20 sono latinoamericani) per giungere a una Convenzione sul crimine di genocidio. Con l’aiuto di Panama, Cuba, India e poi tanti altri, favorisce la risoluzione Onu che avvia quel processo, trovando l’appoggio di premi Nobel come Pearl S. Buck e Gabriela Mistral ma anche di scrittori e filosofi come François Mauriac, Aldous Huxley, Bertrand Russell.
La prima bozza della Convenzione è quella dove si sente maggiormente la mano di Lemkin ma è la seconda a venire poi approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 9 dicembre 1948, il giorno prima dell’approvazione della Dichiarazione universale dei diritti umani. Questa seconda bozza è frutto di compromessi politici che espungono dai gruppi protetti dalla Convenzione (che alla fine saranno solo quelli etnici, razziali, nazionali e religiosi) quelli politici e sociali, che l’Urss non vuole inserire, così come evita di prendere in considerazione il genocidio culturale, inviso a Francia e Gran Bretagna che, in quanto potenze coloniali, temono possa essere usato contro di loro. L’approvazione necessita poi della spinta alla ratifica, su cui Lemkin s’impegna fin troppo, con un deterioramento della salute: la prima ratifica è dell’Etiopia poi, nell’ottobre 1950, con 24 Paesi che hanno firmato, la Convenzione sulla prevenzione e la punizione del crimine di genocidio diventa operante.
Negli ultimi anni della sua vita – muore di un infarto improvviso il 28 agosto 1959 – Lemkin si contrappone alla proposta di 93 attivisti afroamericani, il più noto dei quali è W.E.B. Du Bois, di considerare genocidio (il loro appello si chiama We Charge Genocide) il comportamento dei governi degli Stati Uniti contro la popolazione nera. Ma continuerà a lavorare per capire quali fossero stati i genocidi prima dell’approvazione della Convenzione (quello degli armeni, l’Holodomor contro gli ucraini e tanti altri, tra cui quello in Algeria da parte dei francesi) e ad accrescere il numero delle ratifiche dagli Stati mancanti.
De Michele porta l’analisi oltre la vita di Lemkin, giungendo a riflettere sui tribunali ad hoc degli anni Novanta (ex Jugoslavia e Ruanda) fino alla nascita della Corte penale internazionale con lo Statuto di Roma del 1998 e la sua vita effettiva dal 2002. De Michele segue William Schabas secondo cui esisterebbe «una gerarchia, con il crimine di genocidio al suo apice», posizione combattuta da Antonio Cassese che negava con forza una gerarchia tra i crimini internazionali, anche se condivisa di fatto dall’opinione pubblica e dai media che sempre più hanno usato il genocidio nel senso del male assoluto.
De Michele sembra accogliere positivamente la tendenza, presente soprattutto in giuristi di scuola anglosassone, ad aumentare i reati nelle categorie di crimini contro l’umanità e genocidio, individuando comportamenti specifici da trattare come crimini, tipo «scolasticidio» o «medicidio» per connotare la distruzione della vita educativa o sanitaria di un gruppo. Tendenza che è figlia della più generale rincorsa a un panpenalismo che vuole rendere crimini illeciti anche meno gravi e tende a creare – come è stato fatto per esempio con il femminicidio – un numero più ampio e differenziato di crimini prima sottoposti a un’unica fattispecie criminosa. Nel capitolo finale De Michele affronta con intelligenza le tensioni d’oggi tra universalità del diritto e sovranità statale, i confini ambigui tra crimini contro l’umanità, genocidio, pulizia etnica, il rapporto tra analisi teorica e analisi storica sul genocidio, tutti temi che Lemkin aveva affrontato e lasciato irrisolti.