Domenicale, 21 dicembre 2025
I nonni «adottivi» di Gesù
Mister Harding, ecclesiastico anglicano e violoncellista, ormai vecchio e invalido, si trascina fino allo strumento chiuso in un armadio. Lo riprende tra le mani e, abbandonandosi alla «follia delle sue vecchie dita», inizia a toccare le corde traendone «un lagno bassissimo, di breve durata, a intervalli». Ormai ha compreso che la sua vita ha compiuto il cerchio dell’esistenza e allora «con un dolce sorriso» ripete l’invocazione: «Signore, ora lascia che il tuo servo vada in pace! Signore, ora lascia che il servo vada in pace!».
Così si conclude il romanzo The Warden (Il custode) di Anthony Trollope (1815-82), uno dei più prolifici scrittori vittoriani, dotato però di una creatività e finezza stilistica sorprendenti, nonostante fosse costretto per arrotondarsi il misero salario di impiegato postale a sfornare una cinquantina di romanzi, memore anche dell’impegno di sua madre. Essa, per sostentare la famiglia disagiata, produceva incessantemente libri di viaggi e opere di narrativa. Noi abbiamo ora messo in scena un suo personaggio proprio per quelle ultime parole ripetute, simili a un addio.
Alcuni ne avranno intuito il perché: si tratta della citazione evangelica del canto intonato da un altro vecchio, un certo Simeone che a Gerusalemme si recava quotidianamente nel tempio a pregare. E un giorno, nella fila dei genitori che si recavano là per un rito particolare, era rimasto colpito da una coppia modesta col suo neonato. Il bambino era stato portato nel santuario di Israele per adempiere a un rito biblico duplice: la “purificazione” di sua madre, secondo una norma scritta nel terzo libro della Bibbia, il Levitico (c.12), e il suo “riscatto” perché – sempre secondo la legislazione sacrale formulata nel libro dell’Esodo (12,2) – «ogni maschio primogenito era sacro al Signore» e, quindi, doveva essere con un’offerta riabilitato a ritornare come figlio della coppia.
Il sacerdote ebreo, a noi ignoto, incaricato del rito, avrà certamente compiuto l’atto frettolosamente per smaltire la fila. A lui Maria e Giuseppe e il neonato Gesù, originari del lontano villaggio settentrionale di Nazaret, non dicevano nulla. Non così per quell’anziano, «uomo giusto e pio», Simeone, che custodiva nel cuore un presentimento: «Lo Spirito Santo gli aveva preannunciato che non avrebbe visto la morte senza aver prima veduto il Cristo del Signore». Tutto il racconto “natalizio” che stiamo ora presentando è desunto dal Vangelo di Luca (2,22-38).
Ebbene, in quel giorno Simeone ha un’illuminazione e punta verso il piccolo Gesù, lo stringe teneramente tra le braccia e intona proprio il canto di cui Mister Harding citerà l’incipit. Esso è noto come il Nunc dimittis, dalle prime parole della versione latina della Vulgata di san Girolamo, ed è entrato fin dal V secolo nella preghiera serale liturgica della “Compieta”. L’avvio è dolce e personale e suona letteralmente così: «Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza…».
Non si tratta, però, come immaginava il prete di Trollope, di un malinconico e crepuscolare addio alla vita: c’è stato persino un esegeta Douglas R. Jones, che ha classificato l’inno come un canto funebre intonato dalla cristianità delle origini durante i funerali dei fedeli. È, invece, il saluto festoso all’alba messianica, «luce che si rivela alle genti», un’èra che sta per schiudersi, inaugurata da quel bimbo. Tuttavia Simeone – oltre a questo inno ripetutamente musicato (Orlando di Lasso ha composto ben dodici partiture, da 4 a 7 voci!) – pronuncia anche due oracoli aspri che si affacciano sul futuro di quel neonato e di sua madre. Il piccolo Gesù, cresciuto, sarà un «segno di contraddizione» che genererà opzioni antitetiche e persino il rigetto aggressivo (sarà alla base della «caduta e risurrezione di molti»). Con l’enfasi a lui congenita Giovanni Papini lo definirà «il più grande Rovesciatore, il supremo Paradossista, il Capovolgitore radicale senza paura».
Anche la madre, Maria, riceve un duro oracolo: sarà trafitta nell’anima da una spada. Come la lancia del soldato romano trapasserà il costato del figlio crocifisso, così anche lei condividerà la tragedia del rifiuto. È nata dalle parole di Simeone l’iconografia della Vergine addolorata col cuore trafitto da una o sette spade. Più che all’evocazione di un suo martirio, come si è interpretato in passato, Maria sarà nel crocevia della lotta pro o contro il Cristo, partecipe della «contraddizione» provocata da suo figlio.
In quel giorno, però, c’è un’altra presenza davanti al neonato Gesù. È una vedova di 84 anni di nome Anna, della tribù settentrionale di Asher (eponimo dell’ottavo figlio del patriarca Giacobbe), simile a tante donne anziane che frequentano con fede nella preghiera i templi. A differenza di Simeone, Luca non cita le sue parole, ma ricorda solo che anche lei si emoziona per quel piccolo, «lodando Dio e parlando del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme».
Alle soglie del Natale abbiamo, quindi, posto sulla ribalta quasi due nonni “adottivi” di Gesù, oltre a quelli che la tradizione apocrifa del Protovangelo di Giacomo (II secolo) gli ha assegnato, citando i nomi dei genitori di Maria: se il nonno reca il nome Gioacchino, Anna, la nonna – come la madre del profeta Samuele – porta il nome della stessa vedova anziana del tempio di Sion che in quel giorno si era commossa davanti al neonato Gesù.