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 2025  dicembre 22 Lunedì calendario

Intervista a Giorgio Poi

I frammenti di un periodo complesso sono diventati un disco fatto di sensazioni, lampi, piccoli tagli di luce. Schegge, di Giorgio Poi è un lavoro che procede per dettagli, che racconta un modo di stare al mondo fatto di osservazione e delicatezza. Un piccolo grande miracolo indie del nostro cantautorato che ha saputo imporsi – sulla scia del successo sanremese di Lucio Corsi – tanto che ora arriva anche un regalo natalizio, il nuovo Ep Schegge Reworks, con le riletture di alcuni brani fatte da Faccianuvola, okgiorgio, Contrecouer e Muddy Monk. Seguirà in primavera un tour nei grandi club italiani e non solo, perché Giorgio Poi è uno dei nostri più apprezzati profeti fuori patria. Romano, 39 anni, è la prova che si può essere contemporanei e tradizionali insieme, unendo liriche originali con melodie e arrangiamenti dal gusto un po’retro.
C’è qualcosa di antico nelle sue canzoni: da dove arriva?
«Forse dal fatto che ascolto molta musica del passato. Anche da ascoltatore mi piace capire da dove arriva un pezzo, cogliere riferimenti, citazioni o semplicemente l’ispirazione».
Com’è entrata la musica nella sua vita?
«Da bambino a casa non c’era moltissima musica. I miei genitori non ne ascoltavano tanta, le canzoni le ho scoperte soprattutto guardando i film. Chuck Berry è entrato nella mia vita attraverso Ritorno al Futuro. Sviluppai una grandissima attrazione per la chitarra, giocavo a suonarla per finta».
Imitando Marty McFly?
«Sì, quel film mi ha segnato. A 12 anni mi hanno mandato a lezione e ho abbandonato tutti gli altri giochi».
Il primo vero innamoramento musicale?
«I Nirvana. Mio fratello aveva una cassettina di quelle copiate, da 90 minuti, sul lato A c’era In Utero e sul B Nevermind».
Poi a 20 anni è andato a Londra. La scena italiana non la interessava?
«Volevo studiare jazz, ed ero attratto dalle canzoni anglofone, volevo imparare la lingua per scrivere in inglese. L’italiano all’inizio proprio non lo prendevo in considerazione».
Quanto è rimasto?
«Sette anni. Poi sono andato a Berlino, per quattro anni. Ho scritto un disco per la mia vecchia band, ma non riuscivamo a trovare il nostro spazio a livello discografico e lì ho iniziato a pensare di scrivere in italiano».
«La musica italiana non è più musica alla moda», recita un suo pezzo con Calcutta di qualche anno fa. E poi diceva che «visto da lontano sembra tutto molto più bello»: anche la musica italiana?
«Sì. Quella canzone raccontava il momento in cui arrivai in Inghilterra e, parallelamente al grande entusiasmo per quello che trovavo lì, sviluppavo un occhio diverso su quello che mi ero lasciato dietro. In pratica, ho iniziato ad ascoltare musica italiana a Londra. Ne ho capito le particolarità, ho riscoperto degli autori».
Ad esempio?
«Il primo Vasco Rossi. Non c’era lo streaming, chiesi a un amico di portarmi il cd di Colpa d’Alfredo. Ho (ri)scoperto anche Paolo Conte, Battisti, Dalla, De Gregori: autori che ascoltavo in modo più consapevole».
Lei ha quasi 40 anni ed è al quarto album. Quando si smette essere giovani?
«È una domanda difficile. Penso che un artista non si sentirà mai veramente maturo, significherebbe definire un punto di arrivo: ma questa sarebbe la fine. E non mi voglio già condannare a una non-giovinezza…»
Provo con una domanda più facile: quanti anni le ha dato Spotify?
«Mi sembra 90…»
Novanta? Scusi, ma lei cosa ascolta?
«Molta classica, anche cose del’700, forse quella alza la media. E molto jazz».
Cosa sta ascoltando ora?
«Tra gli italiani mi piace moltissimo Faccianuvola. Poi altre cose vecchie: il trombettista Clifford Brown, il clarinettista Benny Goodman. E un compositore giapponese, Hiroshi Yoshimura, fa cose minimali che si conciliano bene con il mio mood generale».
Peppe Vessicchio diceva che oggi c’è una prevalenza di musica monotonale, poca complessità. Elio, più severo, ha parlato di “medioevo musicale”. Lei trova che ci sia in giro musica troppo “facile”?
«Penso che basti scavare un po’ per trovare cose diverse. Il mainstream risponde a regole di immediatezza e semplicità, non richiede sforzi di concentrazione».
Lei si pone il problema di essere mainstream?
«Non ci penso mai. Non cerco di essere semplice, ma nemmeno di non esserlo: cerco di essere efficace, ovvero di esprimere al meglio quello che sento di voler dire. E pazienza se non arrivo subito».
Pensa che ci sia una pigrizia generazionale da questo punto di vista?
«No, anzi penso che la musica che definiamo “commerciale” abbia un pubblico maturo, non di giovanissimi. Ma non penso nemmeno sia un problema, non giudico, non mi metto tra gli indignati».
Nel futuro c’è un tour nei club. Ci potrà essere anche un Sanremo o lei è uno che “io il Festival mai? “
«Né una cosa né l’altra. Non lo escludo, ma non mi sono mai veramente proposto. Anche perché l’idea mi mette molta ansia. Però magari a un certo punto sarò pronto, chissà».