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 2025  dicembre 22 Lunedì calendario

Intervista a Sergio Vastano

La casa che si affaccia su Porta Palazzo. I ricordi che accompagnano ogni passeggiata, tra quelle vie che, una volta, erano il set a cielo aperto di Al Bar dello sport. «In tv lo propongono ancora, sa?», sorride Sergio Vastano. «Almeno due, tre volte l’anno. È un film entrato nell’immaginario collettivo». Lo dice con orgoglio, senza (troppa) amarezza: sa che quell’epoca è lontana e, fintanto che non sono arrivati Ficarra e Picone, la considerava chiusa. Dopo i fasti di Drive In, Striscia la notizia e i film di Vanzina, il sipario è calato. «Quand’era ancora vivo, io e Gianfranco D’Angelo abbiamo più volte cercato di realizzare una rimpatriata, ma trovavamo solo muri di gomma. Non sono mai stato uno che sgomitava, così mi sono arreso». Vastano ieri ha festeggiato 73 anni. «Con l’età sono diventato un pantofolaio, anzi ho le Birkenstock ai piedi perché il plantare è migliore». Poi, a febbraio, è arrivata la telefonata del duo siciliano: «Stavano per girare la loro nuova serie per Netflix, Sicilia Express, e mi hanno detto: vogliamo te». Più che un invito, una chiamata alle armi. E così si è sfilato le Birkenstock dai piedi.
Non vedeva l’ora, lo ammetta.
«Una volta Mediaset comprava sui quotidiani un paginone centrale per fare gli auguri di Natale, e il mio volto campeggiava, in ordine alfabetico, accanto a Sandra e Raimondo Vianello. Ora è tutto finito. Non fa certo piacere ma lo “sticazzismo” romano salva sempre. Non ha senso combattere con i mulini a vento, è andata così, fine».
Ora che Netflix l’ha rilanciata, cosa spera?
«Di fare almeno due film: uno con Ficarra e Picone, l’altro con Picone e Ficarra. Li adoro».
In Sicilia Express ripropone un calabrese che rinnega le proprie origini. Una tentazione che resta viva, oggi come allora?
«No. Le persone si sono adattate allo stile di vita delle città in cui lavorano, ma non rinnegano più le proprie origini: sono orgogliosi di essere meridionali. Lo stigma del “terrone” è per fortuna sparito. Sopravvive al massimo come battuta in certe figure sovraniste, ma lascia il tempo che trova».
Anche lei è passato al lato oscuro, da romano ha scelto Torino. Perché?
«Per amore. Mia moglie Alessandra doveva spostarsi lì per lavoro e l’ho seguita. Comunque avevo già mollato Roma per Milano ai tempi di Drive In, la Capitale stava diventando invivibile. A Torino sto benissimo, è una città turistica ma non asfissiante».
In cosa si è torinesizzato?
«Aspiro alla discrezione dei piemontesi. Li si bolla come falsi e cortesi, ma non è così, semplicemente sono riservati, non ti sbattono in faccia gli affari loro. Mi piace. E poi vuole sapere una cosa? Lo chef Danilo Pelliccia fa una carbonara favolosa»
Si è trasferito per amore. L’avrebbe fatto anche in passato o una volta veniva prima il lavoro?
«Non ho mai rinunciato alla mia vita privata ma le mie compagne dovevano accettare di essere delle zingare felici, perché non amo la routine. La vera minaccia in amore è la noia. Se arriva, giro i tacchi».
A Drive In il motto era davvero “guardare ma non toccare”? Si fatica un po’ a crederlo.
«Invece su questo Antonio Ricci era intransigente, in studio vigevano distacco e rispetto. Lory Del Santo arrivava, andava in scena e poi tornava a casa. Non c’è mai stato nessun atteggiamento predatorio, è un comportamento schifoso, oggi come allora. Io poi ero sposato, a maggior ragione rigavo dritto, anche se qualcuna mi piaceva, come Toti Botta. Era la più bella, ma non è mai successo nulla».
Possiamo dire che, al netto della provocazione goliardica, resta una rappresentazione delle donne discutibile?
«Il ceto medio era effettivamente allettato dalle rotondità che spuntavano dai balconcini, ma non era uno spettacolo così peccaminoso come si è voluto fare credere. Se ci ripenso, provo quasi tenerezza».
"Striscia la notizia” non va più in onda dopo il Tg5. Anche il Gabibbo deve arrendersi alle Birkenstock?
«Il Tg di Ricci ha fatto la storia della tv ma sono più di 35 anni che va in onda, prima o poi qualcosa doveva cambiare. D’altronde è la legge del mercato: se La ruota della fortuna raccoglie più ascolti e più investimenti scelgono lei».
A “Drive In” guadagnava 4 milioni di lire. Le è mai girata la testa?
«Mi sono tolto lo sfizio di prendermi una bella Porsche rossa, ma la vera gioia era portare mamma e papà nei negozi o al supermercato e dire loro: “Scegliete quello che volete, ve lo regalo”. Dopo tutti gli anni difficili che abbiamo passato economicamente, quello sì che mi rendeva felice».

Molti suoi amici, da Giorgio Faletti a Gianfranco D’Angelo, non ci sono più. Il senso di precarietà inizia a farsi sentire nelle sue giornate?
«Onestamente? Me ne fotto della precarietà. Non penso al futuro, né alla morte. Vivo l’attimo, mi godo il presente».
Con chi è rimasto in contatto?
«Pochi. Abitando a Torino è difficile, e poi sto bene a casa. Mi fanno compagnia i ricordi, mi bastano quelli. Con la vecchiaia si diventa un po’ più “bestiette”, hai meno voglia di uscire, vivi rintanato».
A chi ripensa con più affetto?
«A Gianfranco D’Angelo. Quand’è morto, il 15 agosto 2021, ho pianto amaramente. Per nessun altro mi dispererò così, con lui ho finito tutte le lacrime. Abbiamo calcato insieme il palco finché c’è stata la possibilità. Mi ha insegnato la leggerezza».
Il ricordo più divertente?
«La passione di Sergio Corbucci per i supplì. Scappavamo dal set di Night Club per andarli a mangiare».
Un collega che l’ha stupita?
«Lino Banfi. Quando facemmo Bar dello sport ero un ragazzino, mentre lui aveva già girato decine di film. Quando scoprì che io e Pino Ammendola ci cambiavamo nel deposito tra le cassette della frutta, perché non avevamo un nostro camper, ha chiamato la produzione per metterci a disposizione il suo».
Il ricordo che avrebbe voluto avere, e che invece manca?
«Oltre ad amare il jazz ero un patito di Jimi Hendrix, a 15 anni andai al suo concerto a Roma. Pazzesco. Poi nel 1969 Miles Davis disse che voleva fare un album con lui. Purtroppo non trovarono un accordo. Sarebbe stato un ricordo memorabile».