corriere.it, 22 dicembre 2025
L’allenatore Beppe Sannino, il lavoro in manicomio, gli anni d’oro al Varese, l’Africa: «Vi racconto il mio calcio»
Nella parentesi non breve tra l’essere calciatore e (ancora oggi) allenatore, dunque per sua ammissione «vivendo il privilegio raro di fare lavori che ci piacciono tanto, anzi che ci piacevano fin da bimbi», Giuseppe Sannino detto Beppe trascorse stagioni in ospedale e manicomio. Era un ausiliario. «Pulivo le stanze, i bagni, riordinavo gli spazi, davo una mano dove e se serviva, quando serviva. In ospedale ho visto venir ricoverati e spegnersi miei affettuosi tifosi ai tempi in cui allenavo a Voghera e Pavia; in manicomio ho ricevuto il dono di star vicino e dialogare con persone meravigliose. Ripetevano che, se stavano in quel luogo, allora erano tutte matte... Matte... Ricordo una pittrice fantastica, ricordo in generale persone di una sensibilità che avevano soltanto loro. Persone delicate, fragili. Alcune erano da anni in manicomio, anni e anni, come se un giorno le avessero abbandonate e fine...».
Sannino, 68 anni, impegnato a salvare il Bellinzona nella serie B svizzera, chiamato d’urgenza supplicandolo di realizzar l’impresa (l’hanno ingaggiato dopo l’esonero di due suoi colleghi, la squadra sta ultima, tifiamo per lui), non ha bisogno d’attraversare la realtà dura e cruda dell’esistenza per capirne l’essenza. Nato a Ottaviano in provincia di Napoli, Sannino si era trasferito da piccolo coi genitori a Torino, il papà assunto alla Fiat; soldi in casa zero, quel che avanzava veniva risparmiato, si annotavano le spese su di un quadernetto, insomma capitò anche, com’è capitato ai figli delle migrazioni, da ultimi adesso gli africani, che s’andasse a scuola in ciabatte, nell’attesa si potesse comprar un paio di scarpe nuove. Sannino risiede a Varese, «e con la città, con questa gente, ho come una storia d’amore. D’altra parte, se mi viene permesso, a Varese ho vinto tutto. Non conoscevamo la sconfitta, davvero, era una parola che nessuno pronunciava. Forti, fortissimi».
Dal 2008 al 2011 il suo Varese raggiunse, partendo dalla Seconda Divisione, la serie B, e arrivò addirittura a sfiorare la promozione in A. Da lì, il passaggio al Siena, il clamore, la fama, mille altre esperienze comprese in Grecia, Ungheria, Libia. «Dicono che non abbia un carattere facile. Ho il mio carattere e cerco di mantenerlo. In Italia credo di non tornare più ad allenare. Non hai ancora firmato il contratto che ti domandano se mangerai il panettone oppure la colomba, quando ti manderanno via... C’è questa mania di esplorare fino alla morbosità le parole che uno pronuncia in pubblico, i commenti sui canali social, che evito se non per andare alla ricerca di giocate di calciatori sconosciuti, di campionati lontani... Ti osservano un secondo sui social e subito giù a commentare, insultare, uno è contento se tu vai male, se cadi, manco ti conosce però si entusiasma se passi dei periodi complicati. Grazie, anche no».
Egli appartiene al gruppo, sotto sotto purtroppo non affollato, bisogna esser onesti, anche dalle nostre parti, che campa benedicendo la sorte d’incrociare le nazioni e i continenti e i popoli e le differenze. «In Libia ho fatto la Coppa dei campioni d’africana... Ricordo una nostra trasferta in Nigeria. Eccoci alla zona dello stadio, o meglio lo stadio non si vede proprio. C’è un enorme mercato di quelli per strada, gli animali in giro, rivoli d’acqua, pozzanghere, la folla, il caos, e però boh, lo stadio nulla. Continuiamo a camminare, d’improvviso si apre davanti a noi lo stadio, col cancello. Era tipo un teatro, la struttura in legno. E c’erano dei giocatori incredibili, di una qualità impressionante. Qualità legate sia all’atletismo, alla corsa, alla potenza, sia al palleggio, al controllo, alle tecniche di tiro. Poi gli africani arrivano in Europa e si fermano? Credo si tratti di una fisiologica fase di assestamento, necessaria per imparare il nuovo ambiente, i nuovi compagni, un nuovo modo di stare al mondo dentro e fuori il calcio».
Giuseppe Sannino è spettatore assiduo delle edizioni della Coppa d’Africa, ospitata dal Marocco fino a gennaio, la massima competizione continentale. «Più d’un africano mi ha confidato che la Coppa conta parecchio di più del Mondiale... E avendo avuto e avendo la possibilità di allenare tanti africani, di parlarci, posso capire: è un torneo ma insieme un inno alla propria terra, allo stare uniti, a far festa, vada come vada il risultato finale, con i propri tifosi che sono emigrati nella nazione organizzatrice e si indebitano pur di stare sugli spalti a sostenere... Un’autentica dimensione del calcio, la sua vena originale. Che bellezza, dai».
Gli piacerebbe l’Africa. Allenare di nuovo in Africa. «Guardo ogni giorno al domani per mia natura e anche perché sento di avere un sacco di cose da fare. Bisogna adeguarsi ai passaggi della vita: sono stato in alto, come allenatore, quella fase è terminata, per responsabilità mie o di altri, per decisioni mie o di altri... Non importa. Intanto devo aiutare il Bellinzona a non scivolare giù... Penso sempre al futuro, c’ho il cervello che non smette mai di girare. Devo salvare il Bellinzona».