corriere.it, 22 dicembre 2025
Trump minaccia una nuova guerra commerciale all’Europa. Ma con la prima ha già fallito (e ricordarlo ora può servirci)
Le fine d’anno di solito dovrebbero essere occasioni di un bilancio, non per rilanciare. Stavolta però vale per entrambe perché, nella tensione per la guerra, in Europa sono passate inosservate le ultime minacce di cui ci sta onorando la Casa Bianca. Non sono da poco. Martedì il Rappresentante del Commercio Jamieson Greer ha pubblicato una nota in cui avverte che gli Stati Uniti useranno “ogni strumento a loro disposizione” se l’Unione europea e i suoi governi non la smettono con «cause legali, tasse, multe e direttive discriminatorie e moleste contro i fornitori di servizi statunitensi». Le minacce, vedremo, sono precise e riguardano in pieno anche l’Italia. Tutti i segnali convergono in una direzione: l’aver lasciato partita vinta a Donald Trump in materia di dazi sui beni non lo ha sedato; anzi alimenta la sua aggressività. Dov’è il bilancio allora in tutto questo? Esso è provvisorio, ma c’è: se la passività e l’incertezza dell’Unione europea, è la realtà che si sta incaricando di mostrare a Trump il fallimento della sua politica commerciale; con essa, tradiscono delle crepe la sua intera politica economica e, in prospettiva, il suo sistema di potere. Trump ci appare talmente forte che non ne vediamo bene la debolezza. Ma è da questa che l’Europa deve ripartire nel 2026.
L’Università del Michigan ogni mese fotografa l’umore dei consumatori americani. In dicembre si sentono peggio che subito dopo il crash di Lehman Brothers o durante praticamente le recessioni del dopoguerra. In un anno di Trump, il giudizio delle famiglie riguardo alla loro condizione economica è collassato del 33% e quello sulle prospettive di poco meno. Naturalmente non è così. L’America non sta peggio che durante la Grande recessione di quindici anni fa o durante le fasi di alta disoccupazione dei decenni precedenti. Paul Krugman crede che un senso diffuso di esclusione dagli aspetti più tangibili del sogno americano (casa, salute), la mancanza di sicurezza economica e l’ingiustizia evidente riguardo alle opportunità rendano gli americani più cupi di quanto spieghino i puri dati di crescita o occupazione.
Ma Trump è investito in pieno da questo malumore. Proprio tutti i segmenti dell’elettorato – per età, sesso, razza o titolo di studio – disapprovano in maggioranza il suo operato, soprattutto sui dossier economici (inflazione, tasse, lavoro); la quota netta fra giudizi positivi e negativi del presidente dopo quasi un anno volge alla disapprovazione molto più di quanto fosse vero per Joe Biden dopo lo stesso periodo e, per gran parte del tempo, più dello stesso Trump al primo mandato.
In questo clima, il presidente degli Stati Uniti ha trovato il colpevole: noi. Al Rappresentante del Commercio Greer ha fatto scatenare un attacco che suona come la prima mossa di una nuova campagna. Dice che l’Unione europea e i suoi governi perseguitano aziende americane dei servizi mentre, al contrario, l’amministrazione lascerebbe operare in pace le aziende europee in America. Greer fa anche nove nomi, fra i quali le francesi Mistral e Publicis e le tedesche Sap e Siemens (ma avrebbe potuto citare anche l’italiana Bending Spoons, per esempio). Infine la conclusione del rappresentante al Commercio: «Se l’Unione europea e gli Stati membri insistono a continuare a restringere, limitare, scoraggiare la competitività dei fornitori di servizi americani attraverso mezzi discriminatori, gli Stati Uniti non avranno altra scelta che iniziare ad usare ogni strumento a loro disposizione per contrastare queste misure irragionevoli». E ancora: «Dovessero essere necessarie misure di risposta, la legge degli Stati Uniti permette la valutazione di prelievi o restrizioni sui servizi esteri, fra le altre azioni».
È la minaccia di una nuova fase di guerra commerciale. Di cosa si tratta? La sezione 891 dell’Internal Revenue Code del 1986 dà al presidente autorità di raddoppiare il prelievo fiscale su cittadini e imprese di un Paese straniero «se quel Paese assoggetta cittadini o imprese statunitensi a una tassazione discriminatoria o extraterritoriale». Non solo. C’è già il precedente dei dazi ad hoc al 25% su una serie di prodotti manifatturieri francesi durante il primo mandato di Trump, in reazione alla tassa di Parigi sui servizi digitali approvata nel 2020; un altro esempio, sempre contro la Francia, è la tariffa al 100% in ritorsione annunciata a primavera per i sussidi transalpini all’industria cinematografica. Inoltre, a Washington ormai si parla apertamente di colpire con sanzioni personali – alla stregua di oligarchi russi – i funzionari e i politici europei che dovessero applicare le regole di Bruxelles sul digitale alle imprese americane.
Insomma, cinque mesi dopo la discutibile stretta di mano con Ursula von der Leyen sul campo da golf scozzese di Turnberry, siamo già a «dazi 2, la vendetta». Forse mai parole di Ursula von der Leyen tennero tanto male alla prova del tempo come quelle pronunciate a fine luglio scorso accanto a Trump: “Abbiamo un accordo, un’intesa enorme che porterà stabilità e certezza alle nostre imprese”. Vallo a dire a quelle oggi minacciate di nuovi dazi o di un raddoppio delle tasse per editto presidenziale.
E non sarà un problema solo della Francia, perché anche stavolta Trump ce l’ha con tanti Paesi (Italia inclusa). Sotto accusa sono soprattutto le stesse tasse sui servizi digitali che costarono già a Parigi una prima ondata di dazi nel 2020. Ne applicano di vari tipi diciassette Stati europei fra i quali, oltre a Italia e Francia, anche Spagna, Regno Unito, Polonia e Germania (ma quest’ultima non è ancora in vigore). Per l’Italia si tratta di un’aliquota al 3% del giro d’affari nazionale delle aziende digitali, pubblicitarie o di dati che abbiano un fatturato di oltre 750 milioni di euro nel mondo: riguarda Facebook-Meta, Google-Alphabet, X di Elon Musk o OpenAI, per un gettito al dipartimento delle Finanze di Roma di circa 600 milioni di euro l’anno.
La nozione che questo prelievo sia “discriminatorio” fa, francamente, ridere. Ho già spiegato come tutte queste multinazionali americane eludano già da anni tasse per centinaia di miliardi di euro sulle attività in tutta Europa, grazie a una sofisticata complicità dell’Irlanda (dove quelle hanno le loro basi continentali) con la riforma fiscale introdotta da Trump stesso in America nel 2017. In questo, Dublino agisce da vero e proprio cavallo di Troia della Casa Bianca; e se c’è una discriminazione riguardo ai grandi gruppi americani in Europa, essa è di segno opposto: quelli pagano molte meno tasse rispetto alle imprese native che operano sugli stessi mercati. Lo scandalo c’è, ma a tutto vantaggio dei colossi americani in Europa. E problema non è che la Casa Bianca non riesca a capire, è che non vuole: ho anche raccontato più volte, incluso una settimana fa, come ormai tra i signori del Big Tech e Trump sussista un patto oligarchico fondato sul denaro e sul potere elettorale dei social media, che salda gli interessi e le agende delle due parti.
Con Trump, fra la guerra commerciale e il disonore abbiamo scelto il disonore su un campo da golf scozzese cinque mesi fa. E prima che l’anno volga al termine, rischiamo di avere un’altra guerra commerciale. Come reagire dunque?
Lanciarmi proclami sarebbe un po’ troppo facile, perché non dovrei rispondere delle conseguenze. Ha più senso vedere come sta andando finora per la Casa Bianca la politica dei dazi. Essa, a sentire Trump, perseguiva miglioramenti per gli Stati Uniti nei saldi commerciali con l’estero, nella creazione di posti di lavoro manifatturieri e nell’aumento delle entrate fiscali, in modo da coprire l’ultimo pacchetto di tagli alle tasse. E su tutti e tre questi fronti Trump, con diversi gradi di intensità, sta fallendo.
Non solo l’umore degli americani sulla loro economia è pessimo. Anche il disavanzo dell’America negli scambi di beni con il resto del mondo nei primi nove mesi del 2025, a quasi mille miliardi di dollari, è di 120 miliardi sopra ai livelli dell’ultimo anno di Biden. Invece migliorare, è peggiorato. Gli ultimissimi mesi indicano che in futuro potrebbe iniziare a ridursi, ma è già chiaro che non sarà di molto perché lo strumento prescelto è sbagliato: il problema negli Stati Uniti sono la carenza di risparmio e l’eccesso di consumi, non le frontiere aperte. Quanto alla creazione di posti nell’industria attraverso dazi, il grafico qui sotto parla chiaro: da aprile l’occupazione manifatturiera in America ha preso a scendere, seguendo una tendenza in atto da anni. Era prevedibile. Come spiega Penelope Naas del German Marshall Fund a Washington, i dazi di Trump colpiscono anche componenti e beni d’investimento e rendono così la produzione industriale in America più costosa. Non più conveniente. «Ogni 10 mila posti che creiamo nelle acciaierie grazie alle tariffe – dice Naas –, ne perdiamo 175-200 mila di attività della manifattura basate sull’acciaio stesso».
Infine le entrate fiscali da dogane, che in effetti stanno aumentando come mostra il grafico qui sotto. Ma i nuovi ricavi sono minimi (forse lo 0,3% del prodotto lordo) a fronte di tagli alle tasse, in gran parte a favore dei ricchi, che proiettano il deficit sopra al 6% del Pil per tutto il prossimo decennio.
Insomma, per dare giudizi definitivi è presto. Ma quel che Trump vuole fare con le sue guerre commerciali tiene in America l’inflazione più alta del necessario e, per il momento, non sta funzionando. È un flop che aspetta di diventare evidente. L’opinione pubblica americana lo percepisce e lo esprime nei dati abissali di fiducia economica, nei sondaggi severi sull’operato del presidente e anche nel crollo di popolarità dell’industria del Big Tech (grafico sotto). Essa inizia da ben prima del ritorno di Trump, ma per la popolarità del tycoon dare l’impressione di preoccuparsi del benessere dei suoi grandi azionisti – alcune delle persone più ricche e prive di scrupoli al mondo – può diventare esiziale.
Perché l’idea che qualche regola e qualche tassa i signori di Silicon Valley la debbano pur accettare può suonare persino logica, nella società americana. Anche un concetto del genere nasce in Europa. Reuters ha pubblicato un memo interno di Meta – la casa madre di Facebook, Instagram e Whatsapp – dove si stima che il 10% del fatturato del gruppo, 16 miliardi di dollari l’anno, viene da truffe in rete e promozione di prodotti proibiti. Gli europei hanno qualche argomento valido, per spiegare alla società americana che porre qualche limite non è così lunare (multe comprese). Quanto a Trump, per il momento sembra diretto contro un muro che si presenterà alle elezioni di mid-term di novembre.
Forse per questo torna a dichiararci guerra commerciale, per cambiare tema e trovare un capro espiatorio dei suoi problemi. Ma davvero per noi europei, incluso il governo italiano, non c’è fretta di stringere con lui un altro patto in stile “Ursula-sul-campo-da-golf”.