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 2025  dicembre 22 Lunedì calendario

Sono tassiste, tifose, calciatrici: la liberazione delle donne d’Arabia

La schermata di Uber è un po’ diversa. Ci sono i dettagli dell’auto. C’è il nome dell’autista, ma manca la foto. È l’unica differenza tra Maryam, una delle rarissime tassiste di Riad e i suoi colleghi. Anzi, ce n’è un’altra: lei è più brava a districarsi nel traffico e non si scoraggia di fronte alle brusche risposte dei poliziotti che presidiano le chiusure stradali verso l’Al Awwal Park, lo stadio dove si sono giocate quattro delle sei Supercoppe italiane d’Arabia. Nel gennaio 2019 Maryam non aveva ancora la patente, ma da qualche mese alle donne arabe era stato concesso il permesso di guidare, grazie a una lunga lotta: solo sei mesi prima Loujain Al Haihloul, attivista contro il divieto di guida, era stata incarcerata e torturata. E non avrebbe mai pensato che così presto tante donne avrebbero preso l’auto a Gedda per andare vedere la Juve di Ronaldo battere il Milan. Quel giorno per la prima volta uno stadio di calcio arabo apriva i cancelli al pubblico femminile. E in sette anni le donne sono tornate, ogni volta di più, per accompagnare i clienti di Uber, per tifare assieme alle amiche o al marito, nelle zone vip o in curva. Oppure per annunciare le formazioni, come Ajwa Aljoudi, giornalista esperta di cinema, farà anche stasera prima di Napoli-Bologna: «Le donne ricoprono sempre più ruoli nel calcio, una piattaforma che sta aiutando tanto l’Arabia a crescere. L’impatto avuto dall’arrivo di Ronaldo all’Al Nassr ha accelerato il processo e ha dato impulso anche al calcio femminile. Non è solo una questione di competizione, ma di creare fiducia e opportunità per le prossime generazioni».
Scindere la propaganda dalla realtà non è mai semplice in Arabia. Però tenere gli occhi aperti significa osservare un mondo che in questi anni si sta evolvendo anche grazie al calcio, in una città dai mille cantieri, che tra meno di 9 anni ospiterà la finale del Mondiale. A 20 chilometri dal centro, nel campo della facoltà di medicina, si gioca un’altra Supercoppa, quella «D’inverno», fra la femminile dell’Al Nassr e quella dell’Al Hilal, il club di Inzaghi (2-0 per le ronaldiane). Nel pubblico ci sono tante ragazze. C’è una piccola sezione ultrà dell’Al Hilal, con tamburi e megafoni. E tutto è organizzato alla perfezione per essere rilanciato sui social con immagini e video accattivanti. Del resto se sei anni fa il calcio femminile qui era un obbligo legato alla nascita della Nazionale (creata con un casting di 700 atlete, il c.t. catalano è scuola Barça), adesso è di moda, con oltre 1000 allenatori e più di 70mila praticanti.
Il campionato ha 4 anni di vita: ci giocano straniere provenienti da 28 Paesi e se nella prima stagione l’ultima in classifica ha segnato 1 gol in 14 partite subendone 173, adesso la situazione è migliorata. I budget sono infinitamente più bassi dei maschi, ma i premi per chi vince il campionato sono di 500mila euro, 10 volte di più rispetto all’Inghilterra. E se Ashleigh Plumptre che al Leicester guadagnava quasi un milione di euro ha scelto l’Al Ittihad avrà avuto i suoi motivi. «La gente si è sentita tradita dalla mia scelta, gli attivisti Lgbt hanno protestato – ha raccontato al NY Times – ma qui mi sento al sicuro e non sono d’accordo coi tanti pregiudizi su questo Paese». I soldi aiutano a cambiare prospettiva. Ma forse aiutano anche a migliorare le cose.