Corriere della Sera, 22 dicembre 2025
Storia e fede, archeologia di Gesù
A forza di destrutturare senza bilanciamenti ci stiamo azzerando. Resta la nostalgia o il vuoto, salvo scienza e tecnica che progrediscono isolate! Trionfano macchine intelligenti, ma in noi l’umanità è al lumicino: piacerini da soddisfare subito per placare l’insensatezza di un tutto liquefatto senza più nulla che stia, e alla fine siamo infelici! Tre millenni di civiltà si sono conclusi, e ora? Eppure nelle pieghe del tessuto sociale sbrindellato operano oscuri costruttori di futuro intercalando agli «uffa» embrioni di solidità e durata. Ne deduco che la realtà non coincide con l’interpretazione che ne diamo, compreso questo sfogo.
Nello studiare la leggenda di Roma per strati (in quattro volumi della Fondazione Valla) siamo risaliti alla versione orale essenziale e condivisa risalente ai secoli VII e VIII. In essa la storia tende a scomparire inghiottita dal mito; eppure qualche lacerto di realtà è sopravvissuto… Così Romolo primo re di Roma ha fondato una città-Stato nell’aggregato di rioni del Septimontium, ma lui aveva un gemello, erano figli di una principessa di Alba Longa, sono stati nutriti dai re divini Pico il picchio e Fauno il lupo/lupa e sono stati salvati dalla Madre dei Lari? Ne dubito: poteva anche essere un figlio di nessuno…
Similmente il Gesù «storico» non coincide con il Cristo «ideale» delineato da Paolo e dagli apostoli, molto in difficoltà dopo la sua morte: era stato abbandonato dal padre celeste all’infamante croce e aveva annunciato l’avvento del «regno di Dio» entro una generazione, poi mai arrivato. Si discute su ciò dal Settecento. Da ultimo ha tentato di risolvere il problema Papa Benedetto XVI, Joseph Ratzinger, sostenendo che Gesù è Cristo; ma la questione viene ora riaperta dal teologo Vito Mancuso con Gesù e Cristo, 776 pagine dedicate a Piero Martinetti (Garzanti): un trattato serio, affascinante, inevitabile. Il Perché non possiamo non dirci «cristiani» di Benedetto Croce (1942) vale ancora?
Alla coscienza moderna ripugna che tutta l’umanità sia stata macchiata dal «peccato originale» di Adamo – ignoto all’Antico Testamento e concepito da Paolo di Tarso negli anni 50 d.C. – e che per lavare questa macchia si sia dovuto sacrificare Cristo a un Dio che l’aveva «prediletto» per riscattare noi incapaci di salvarci seguendo giustizia e amore – come aveva predicato invece Gesù, ignaro di un simile peccato. L’idea ha tormentato perfino il cardinale Carlo Maria Martini: «Non riuscivo a capire perché Dio ha lasciato soffrire suo figlio sulla Croce… Me la prendevo con Dio…». A tale interrogativo risponde ora Mancuso prima identificando e datando il Cristo di Pietro e Paolo e poi rivelando ciò che con esso contrasta e cioè quanto del Gesù storico è sopravvissuto nelle prime lettere di Paolo e nei Vangeli. Le società immerse nel sacro richiedono per essere comprese l’epistemologia di un esperto di «mitistoria».
Nel Vangelo di Marco (70 d.C. circa) Gesù non è figlio di Giuseppe o dello spirito di Dio ma solo «di Maria di Nazareth», contrariamente all’uso del patronimico in Palestina. Si trattava di una maldicenza che circolava in quel villaggio sulla sua nascita da padre incerto? Inoltre Gesù chiamava la madre «donna» e aveva scarso riguardo per lei, per i quattro fratelli (che lo credevano un fuori di testa) e per le sorelle, ai quali anteponeva i seguaci. È piuttosto Cristo – non Gesù – a essere concepito da Giuseppe o dallo spirito di Jahvè in Maria e per di più a Betlemme, culla di Davide e dei messia…
Possiamo immaginare Maria, uscita magari di casa per incontrare amiche, trascinata e violentata… Poi Giuseppe, riconosciuta la sua innocenza, l’ha sposata e con lei ha generato figli e figlie. Eppure, per quanto padre comprensivo, non è riuscito a riparare in Gesù il trauma originario di non essere figlio suo, vissuto come una impurità. Serviva pertanto un lavacro: quello del Battista nel Giordano. Così purificato, ha visto aprirsi il cielo e scendere su di lui una colomba: lo spirito di Jahvè che gli ha chiesto di profetare e preparare il regno di Dio. Così il vuoto della funzione paterna è stato colmato dalla paternità infinita dell’unico Dio che in lui ha suscitato la visione della caduta prossima dei troni del mondo sostituiti dal regno di Jahvè, che ha elevato Gesù spiritualmente sopra l’umanità – pur senza infrangere la sua unicità – in quanto «figlio dell’uomo». Entro una generazione la storia sarebbe terminata in un incendio e in un giudizio universale, ragione per cui bisognava diventare radicalmente e rapidamente buoni per essere assolti o condannati. Invece Gesù, ribelle al clero giudaico alleato ai Romani, è stato condannato come «re dei Giudei» ed è morto in croce disperato: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Inoltre il regno di Dio mai è giunto, mentre sul maggior trono è apparso Nerone! Per i seguaci di Cristo sono seguiti vent’anni di angoscia a causa della condanna a morte e della profezia mancata; fino a che Paolo, alla metà degli anni 50, ha interpretato la morte di Cristo come prevista, voluta, redentrice del peccato originale attribuito a tutta l’umanità – irredenta prima di Cristo? – compensando con quel riscatto lo svanito regno di Dio. Senza questa visione – estranea al Gesù storico – il figlio di Maria sarebbe stato solo un messia sconfitto. Eppure Gesù idealizzato come Cristo – vincente attraverso i secoli e nel globo grazie a uno strumento di tortura tramutato in simbolo di redenzione – ripugna a una morale estranea a un Dio che grazia tramite un sacrificio umano.
Tornando a Benedetto Croce: oggi non possiamo non essere «gesuani» ed eventualmente «neo-cristiani», ricostruendo filologicamente Gesù e reinterpretandone la figura all’altezza della coscienza sviluppatasi negli ultimi tre secoli. Il cristianesimo ideato da Paolo ha perso forza propulsiva nella modernità: aveva guadagnato l’impero – estraneo a Gesù, concentrato sulla «eletta» Palestina – prima perdendo Gesù e alla fine anche molti di noi.
Come archeologo sono incline agl’inferi, intesi come stratificazione terrestre e umana da scavare, contrapposta alla spiritualità del cielo – ma, se arrivo a trascenderla, tra Paolo di Tarso e Vito Mancuso di Carate Brianza scelgo il secondo, con una sola diversità.
Per lui l’armonia fa funzionare la vita. Io penso piuttosto che gli organismi evoluti funzionino grazie a opposti che cooperano confliggendo. L’armonia è un temperamento momentaneo degli opposti a cui succede nuovo disordine. Senza il male saremmo schiavi del bene invece che liberi di sceglierlo. Il bene stesso muta a seconda delle circostanze: amiamo la pace ma se qualcuno ci invade ci armiamo, e perfino tra beni vi è conflitto, come tra giustizia e libertà.
Così tra desideri ed emozioni inconsci, tra sentimenti e ragione consapevoli, tra morale e trascendenza spirituale noi ci dibattiamo, a volte accarezzati dall’armonia e altre volte colpiti dalla dissonanza. Anche Johann Sebastian Bach è dissonanza che si risolve in armonia, e viceversa. Insomma, nella psiche-umana l’inconscio è legato a tal punto al conscio che non possiamo concepire le «confusioni infinite» del primo senza le «precise distinzioni» del secondo. Entrambi strutturalmente «stanno» come un tutto da analizzare e come singolarità da comporre: opposti in lotta e abbracciati.