Corriere della Sera, 22 dicembre 2025
De Gasperi e l’eredità irrisolta
Mi pare che finora nessuno abbia messo a fuoco l’analogia tra l’arrivo al governo della destra guidata da Giorgia Meloni, tre anni fa, e l’arrivo al governo dei cattolici guidati da De Gasperi nel 1948. Si tratta invece di un’analogia significativa che ci dice molto.
In entrambi i casi giungono al governo del Paese forze politiche da sempre escluse dal potere perché giudicate fuori dal perimetro costituzionale in quanto estranee se non ostili alla vicenda (antica o più recente) dello Stato nazionale o del suo regime politico. In entrambi i casi, quindi, si pone per i nuovi vincitori un problema cruciale di legittimazione, che la vittoria elettorale di per sé non garantisce. Non a caso gli avversari sollevano proprio tale questione, lanciando nei confronti di entrambi – fatto davvero singolare – sostanzialmente sempre la medesima accusa. Il governo De Gasperi è subito definito dalle sinistre «clerico-fascista» così come l’attuale subito tout court «fascista».
Molto diverse, invece, appaiono le risposte che in un caso e nell’altro danno i due leader. De Gasperi si oppone al disegno di un governo tutto di cattolici che Dossetti e la sinistra Dc avrebbero voluto dopo il trionfo elettorale. Viceversa, nonostante la Democrazia cristiana disponga in Parlamento della maggioranza assoluta, costituisce fin dall’inizio un governo di coalizione con liberali, socialdemocratici e repubblicani.
Lo stesso De Gasperi designa poi un vertice istituzionale dello Stato totalmente estraneo alla vicenda del cattolicesimo, con un presidente della Repubblica e vari presidenti del Senato tutti di estrazione laico-liberale (un paio perfino notoriamente affiliati alla Massoneria); infine sceglie come ministro degli Esteri un superlaico come Sforza e a dispetto delle fisime neutraliste dello stesso Dossetti e dei cattolici che questi rappresenta aderisce senza esitazioni al Patto atlantico. Conclusione: grazie a De Gasperi la Dc si candida fin dall’inizio ad essere quel «partito della nazione» che effettivamente essa sarà: complice un Partito comunista che il legame di ferro con Mosca terrà chiuso fino alla sua morte nel carcere a vita dell’opposizione.
La differenza rispetto all’oggi e a Giorgia Meloni è clamorosa. Meloni non fa un solo passo fuori dal recinto del suo partito o della coalizione, convinta evidentemente che il potere possa essere diviso solo con chi ha il suo stesso gruppo sanguigno, che alla fine solo questo conti. Ma, dando prova di una timidezza inaspettata in una personalità per mille versi invece così felicemente sicura di sé, la presidente del Consiglio rischia di perdere la sua grande occasione, la duplice opportunità che la storia sembra averle riservato: da un lato costituire in Italia uno stabile polo liberal-conservatore per la prima volta dopo la Destra storica (ciò che a Berlusconi non riuscì), dall’altro sanare finalmente la drammatica lacerazione che il fascismo ha lasciato in eredità alla Repubblica. Diventare così la protagonista indiscussa di una pagina davvero nuova della vita del Paese.
È singolare, tuttavia, come in vista di un simile obiettivo Meloni fatichi a percorrere la strada maestra che da tempo le sta spalancata davanti. Vale a dire, riuscire a trasferire e usare nella gestione della politica interna il grande capitale di successo e di stima che le sue indubbie capacità le hanno consentito di accumulare nella gestione della politica estera del Paese. Un successo che una vasta parte dello stesso Paese da tempo riconosce e apprezza: senza però che tale riconoscimento – e questo è il problema – si trasformi poi in un consenso di misura tale da cambiare davvero le cose. Cioè di consentire alla presidente del Consiglio il salto necessario per diventare padrona indiscussa della sua coalizione e insieme – le due cose sono evidentemente collegate – allargarne i confini, sfondare con il suo partito il limite elettorale del 30 per cento, acquisire la statura di un’effettiva leader nazionale, diventare la guida di un vero «partito della nazione».
Perché finora questa potenzialità non si è realizzata? La risposta va trovata, a me sembra, nelle pieghe oscure della psicologia. È come se esistessero infatti due Giorgia Meloni. La prima è la rappresentante di una evidente strategia, la decisa sostenitrice dell’interesse nazionale ma aperta a quello altrui e capace di rivolgersi a tutti gli interlocutori della scena internazionale, l’accorta ma cauta negoziatrice sicura di sé, seppur convinta della necessità per quanto possibile di non spaccare, di non dividere. C’è poi invece una seconda Giorgia Meloni: quella che a Roma sta rinchiusa nel bunker della routine politica e di partito circondata solo dai suoi amici e fratelli d’Italia, quella che quando prende la parola non riesce a farlo se non lasciando esplodere la sua aspra maestria tribunizia e distribuendo schiaffi a tutti quelli che non le piacciono, una Giorgia Meloni che, pur evocando di continuo la nazione, stenta a trovare le parole che uniscono, le parole capaci di indicare grandi traguardi, di far sentire tutti, anche i lontani, coinvolti in quel disegno di vero cambiamento e di rinascita del Paese di cui sempre di più abbiamo un disperato bisogno.
Che cosa mai impedisce alle due Giorgia di trovare il modo di andare d’accordo, magari di unirsi finalmente in una sola persona?