Corriere della Sera, 22 dicembre 2025
Intervista a Samuel Alito
«Penso che sia ancora forte, abbiamo le elezioni – dice al Corriere il giudice della Corte suprema Samuel Alito, quando gli chiediamo come valuti lo stato della democrazia americana che si appresta a celebrare il suo 250° anniversario —. Non voglio essere troppo pessimista. Le istituzioni funzionano tutte, a un certo livello. Ma penso che ci siano gravi tensioni. Spero siano il prodotto di un’epoca particolare che finirà, ma al momento ci sono gravi attriti sul modo in cui funziona il nostro sistema costituzionale. È molto, molto, molto difficile approvare leggi al Congresso, perciò i presidenti estendono i loro poteri al limite, se non oltre il limite, e i giudici a volte oltrepassano i lori poteri e le cose che fa il presidente vengono contestate in tribunale. Quindi abbiamo un costante conflitto, potenzialmente, tra il presidente e i tribunali, e questo non è un bene». Samuel A. Alito jr., nominato da George W. Bush nel 2005, ci accoglie nel suo studio presso la Corte suprema. È pieno di cimeli sportivi, ma il posto d’onore sul caminetto è riservato a oggetti che celebrano le sue origini italiane: il certificato di nascita del padre, un alto riconoscimento ricevuto a Roma e la foto dell’indicazione stradale per Saline Joniche, in Calabria, terra d’origine del padre (la famiglia materna ha radici in Basilicata).
È un momento storico. La Corte suprema, con una super-maggioranza di giudici conservatori (6-3) ha rivisitato vecchi precedenti e ne ha stabiliti altri sull’aborto, il diritto alle armi, l’affirmative action, la libertà di religione e altro ancora. Il 50% degli americani ha una opinione non favorevole della Corte. In una fase in cui il presidente cerca di espandere il potere esecutivo e il Congresso sembra incapace agire, è cruciale che la Corte mantenga l’equilibrio tra i tre poteri. Alito non può parlare di casi aperti, ma le sue osservazioni in quest’intervista di un’ora mostrano l’importanza su future decisioni di principi come la «Major Question Doctrine» (Dottrina delle Grandi Questioni, evocata dal giudice capo Roberts nel caso dei dazi), che può essere utile nel creare un equilibrio tra potere esecutivo e legislativo.
Quanto sono importanti le sue radici italiane?
«Piuttosto importanti. Tutti i miei nonni sono nati in Italia, mio padre venne qui neonato, mia madre è nata in America. Erano la generazione di italo-americani che si americanizzò, c’era molta pressione ad adottare le abitudini americane, al punto di cambiare i nomi. Mio padre si chiamava Salvatore Alati e diventò Samuel Alito.
I valori dei genitori hanno influenzato la sua carriera?
«Sì, entrambi erano insegnanti, vedevano l’istruzione come mezzo per uscire dalla povertà ed entrare nella classe media. Mia madre, unica di sei figli che andò al college, era avventurosa, comprò un’auto per andare a New York (dal New Jersey ndr) e ottenere un master alla Columbia University. La famiglia di mio padre era più povera di quella di mia madre: mio nonno materno lavorava in un’acciaieria e non perse il lavoro durante la Depressione. Il padre di mio padre era un manovale e lo perdeva periodicamente».
Sua madre Rose fu la prima a insegnarle la fede. Che influenza ha la religione nel suo lavoro alla Corte?
«Influenza chi sono come persona, mi ricorda il bisogno di trattare tutti con dignità e come figli di Dio e di essere onesto in quello che faccio e fedele ai miei doveri di giudice. Quello che non succede è ciò per cui i cattolici negli Usa sono stati accusati da sempre: imporre le loro visioni religiose sul resto del Paese. Non ho l’autorità per farlo, ho giurato di applicare la Costituzione e le leggi degli Stati Uniti. Non penso comunque che ci sia nulla nella Costituzione che sia incompatibile con gli insegnamenti cattolici, credo che sia il prodotto di quella che era una società fortemente cristiana e piuttosto devota, non cattolica, c’erano pochissimi cattolici, ma comunque cristiana. La nostra idea che tutti gli uomini sono stati creati uguali e dotati dal Creatore di alcuni diritti inalienabili è un’idea illuminista ma credo sia entrata nell’Illuminismo attraverso l’eredità cristiana dell’Europa».
Siete sei giudici cattolici oggi nella Corte suprema. Questo genera preoccupazioni per sentenze come quelle sull’aborto o sulla libertà di religione?
«Non dovrebbe, non penso che nessuno di noi abbia votato come ha votato perché siamo cattolici, ma per il modo in cui interpretiamo la Costituzione e le leggi. Ma sin dall’inizio della storia del Paese fino ai giorni nostri questa è stata l’accusa contro i cattolici nella vita pubblica negli Usa».
Il verdetto su Dobbs (che rovesciò Roe v.Wade e disse che la Costituzione è neutrale sull’aborto, rimandando le decisioni al Congresso o agli Stati) fu assai criticato anche dall’estero. La ritiene una cosa senza precedenti? Come lo spiega?
«L’aborto è una questione molto controversa. Per quello che ne so fu una cosa senza precedenti, e io credo sia basata sulla mancanza di informazioni. Prendete il premier Boris Johnson (uno dei critici ndr): in Gran Bretagna la legge sull’aborto è stata approvata dal Parlamento, ed è questo che dice Dobbs, che le norme sull’aborto devono essere decise da membri eletti dell’organo legislativo, e lo stesso accade in Francia. Hanno criticato Dobbs per aver reso la situazione da noi simile a quella nei loro Paesi».
Lei scrisse nell’opinione della maggioranza su Dobbs che il rovesciamento di «Roe» era basato su due criteri: 1) che quella sentenza era «enormemente sbagliata»; 2) che non aveva risolto ma approfondito le divisioni nazionali. Ma pensa che Dobbs abbia risolto quelle divisioni?
«Non ha cambiato il fatto che l’aborto resta un tema molto conflittuale e, come avevo in qualche modo previsto, ha portato a regole molto diverse in diversi Stati. Purtroppo le divisioni restano, negli Stati rossi (conservatori, ndr) ci sono molti democratici e negli Stati blu (progressisti, ndr) molti repubblicani: perciò ci sono molte persone che finiscono col vivere sotto leggi che non condividono».
Gli originalisti come lei puntano a ripristinare la Costituzione. Questo significa anche chiedere che il Congresso eserciti di più le sue responsabilità?
«Sì, la Costituzione prevede un sistema di governo in cui le leggi sono fatte dal Congresso cioé dai rappresentanti eletti dal popolo. Quel che è successo nel corso del XX secolo è che il Congresso ha delegato l’autorità all’esecutivo. E ora a causa della polarizzazione del Paese è quasi impossibile per il Congresso approvare le leggi. Come risultato, le agenzie dell’esecutivo fanno gran parte delle leggi. E negli ultimi dieci anni abbiamo visto una crescente tendenza dei presidenti a usare sempre di più il proprio potere o quello che credono sia il proprio potere. Nel 2014, dopo le elezioni di midterm in cui il suo partito perse il controllo del Congresso, il presidente Obama disse: «Ok, ma ho la penna e il telefono» – la penna, cioé gli ordini esecutivi, che sono aumentati. Poi sono aumentati durante la presidenza Trump. Poi Biden prese decisioni di grande peso con ordini esecutivi, come cancellare i debiti studenteschi o imporre che tutti gli impiegati di aziende di una certa dimensione ricevessero il vaccino del Covid. E ora Trump sta usando il suo potere esecutivo in modo molto aggressivo. Da gennaio molti suoi ordini sono stati subito contestati in tribunale. Abbiamo 680 giudici distrettuali: se uno di loro dice che è incostituzionale o illegale, il caso arriva da noi come questione di emergenza».
Lo «shadow docket» (lista ombra) di decisioni urgenti.
«Da gennaio ci sono stati 70 di questi casi, e non su questioni minori, abbiamo appena emesso un verdetto sul redistricting (il ridisegno delle circoscrizioni elettorali) in Texas. Dobbiamo decidere sullo schieramento da parte del presidente Trump della Guardia nazionale in illinois…»
Lei ha detto: «Una cosa è dire che la Corte sbaglia, un’altra dire che è illegittima». C’è una crisi di fiducia nella Corte suprema.
«Siamo stati sottoposti a un’ondata di critiche, molte feroci, per le nostre decisioni, e accusati di agire illegittimamente. Ha un effetto su quello che pensa la gente».
Parla di accuse nei media o anche dalle istituzioni?
«Bè sì, ci sono stati membri del Congresso e dell’esecutivo che sono andati troppo oltre secondo me. In passato quando la Corte suprema esprimeva un verdetto che a loro non piaceva, i presidenti stavano attenti alle parole. Certamente erano liberi di dire che avevamo sbagliato, ma aggiungevano di rispettare la decisione della Corte. Ma quando inizi a dire che si tratta di una istituzione illegittima… È importante che la gente accetti che facciamo quello che riteniamo sia il nostro lavoro, a meno che davvero non sia vero che siamo corrotti».
La separazione dei poteri è un tema molto attuale. Lei crede che nell’affrontare la questione possa essere utile la «Major Question Doctrine» (principio giuridico che limita il potere dell’esecutivo di regolare questioni di grande rilevanza economica o politica, richiedendo un mandato molto chiaro dal Congresso)?
«Penso di sì. È un modo per capire quello che il Congresso intendeva con una determinata legge. Non sempre questo è chiaro. Perciò i presidenti dicono: “Non riesco a far passare le leggi al Congresso, fatemi dare un’occhiata alle norme esistenti per vedere se trovo qualcosa che mi permetta di fare quello che voglio. Ah, eccolo qua”. Ma il punto è: è così che il Congresso voleva che fosse interpretata quella legge? Se a lungo tutti hanno ritenuto che il significato fosse oscuro e non è stata usata per fare niente di importante e adesso all’improvviso il presidente dice “Ecco qui, ho un enorme potere in base a questa piccola clausola”, la Major Question Doctrine afferma che probabilmente non è quello che intendeva il Congresso».
C’è chi dice che la sentenza sull’immunità presidenziale è una minaccia alla Costituzione.
«Ho votato a favore e non penso sia una minaccia alla Costituzione, ma che protegga l’autogoverno democratico. Viene decritta come la decisione di dare l’ìmmunità a Trump, ma la dà anche a Biden e Obama. Negli ultimi anni abbiamo visto gente che dice che hanno commesso crimini e potrebbero essere incriminati. Hanno la stessa immunità, come l’avrà chiunque venga dopo. L’autogoverno democratico richiede che il partito e il candidato che perdono le elezioni dicano: “Ho perso, lo accetto”. Se il presidente pensa che, oltre a perdere le elezioni, finirà in carcere per cose fatte durante la presidenza, sarà meno pronto a cedere il potere».
Se un presidente violasse una decisione della Corte, c’è qualcosa che potete fare?
«Per la maggior parte no. No, ma sì nel senso che possiamo emanare una sentenza, spiegarla e sperare, come dovrebbe accadere in una società che crede nello stato di diritto, che il presidente obbedirà. Questa è stata la tendenza per fortuna. Per esempio il presidente Nixon rispettò la sentenza che esigeva che consegnasse le registrazioni del Watergate anche se alla fine distrusse la sua presidenza e lo costrinse alle dimissioni».