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 2025  dicembre 21 Domenica calendario

Tra le opere d’arte e l’eco di antichi baccani. Chi salverà oggi il Caffè Greco?

Com’è esistita una civiltà dei salotti e della conversazione, cara ad una raffinata saggista quale Benedetta Craveri, così ne è esistita una dei caffè. Simile a quella, anche questa non aveva confini geografici precisi. Se ne trovavano a Parigi, Roma, Berlino, Monaco, Vienna e tutti avevano qualcosa di comune: frequentarli era un modo di vivere. Dei tanti che furono, i caffè storici si sono ormai ridotti a pochi e di quei pochi resta il guscio: rutilante, lucente quanto si vuole, ma pur sempre il guscio, ché l’anima interna è morta. Oggi nel Pedrocchi di Padova, nel Florian di Venezia, nelle Giubbe Rosse di Firenze si respira un’atmosfera tanto diversa da quella originale che solo una penna liricamente ispirata, come quella di Patrick Mauriès, può ancora evocarne una quotidiana ritualità. Ritualità che, come tutto ciò che è transitorio, non ha una forma precisa: è un nonsoché di cui ci si accorge soltanto quando non c’è più. Nel libro di Mauriès (pubblicato una ventina d’anni fa da Gallimard), Quelques cafés italiens, un ruolo non secondario lo svolgeva il Caffè Greco di Roma, oggi frattato e chiuso (temporaneamente) dal 9 ottobre scorso.
Questo caffè, sebbene abbia cambiato più volte proprietario, non è stato possibile stravolgerlo, com’è accaduto a molti altri, giacché l’insieme d’opere d’arte che in tanti anni i suoi frequentatori vi avevano lasciato lo aveva reso nei secoli un piccolo museo. Dico nei secoli, perché il caffè Greco è, credo, il più antico di Roma. Alcuni documenti e una lettera del poeta Cesare Pascarella lo vogliono fondato nel 1760, e, tuttavia, se potessimo identificarlo con quel “Caffè di Strada Condotta” di cui parla Casanova nelle sue Memorie, si dovrebbe retrodatarne l’apertura di almeno vent’anni. Non so quanto sia plausibile questa supposizione, certo è che, se non fu proprio quello il locale, assai simile dovette almeno esserne la clientela di «mezzani, castrati e avventurieri». E anche di artisti e poeti, ça va sans dire, ma dei più squattrinati, di quelli che avrebbero potuto far proprio il verso del tredicesimo carme di Catullo plenus saccus est aranearum (il borsello è pieno di ragnatele). Scultori celebrati, come il Canova, al contrario, non vi mettevano piede volentieri, intimiditi forse non soltanto dalla rustica e pittoresca chiassosità dei locali ma anche dalla cattiva fama politica dei suoi frequentatori (all’occhio del governo almeno), ch’erano in gran parte patrioti e cospiratori. Dal Caffè Greco partì infatti il famoso assalto alla Caserma dei granatieri in Piazza Colonna, inutile perché subito represso nel sangue dalla fanteria pontificia. Vi restarono feriti anche lo scultore Lupi, che capitanava la rivolta, e il pittore Giulio Pasqualini, tratto in salvo all’estremo momento dalla cameriera della regina Ortensia. Fu lei a gettarsi ai piedi della sovrana, affinché proteggesse la vita del giovane. E questa, che tremava per la vita dei figli, coinvolti nei moti carbonari, si commosse e gli offrì riparo al Palazzo Ruspoli dove abitava col marito Luigi Bonaparte. Sono storie, echi d’un tempo lontano che possono leggersi nelle Cronache del Caffè Greco, grazioso volume pubblicato da Diego Angeli nel 1930, a partire da una serie d’elzeviri già apparsi sul periodico fiorentino il Marzocco. Angeli, che nei romanzi echeggiava un po’ troppo D’Annunzio, come saggista sapeva sciogliere invece la raffinatezza della sua prosa nel piacere della conversazione elegante e sentimentale. Le sue Cronache restituiscono quel che d’impalpabile doveva respirarsi ancora negli anni Trenta in quegli ambienti (con quella sala stretta, lunga e vetrata per la sua forma chiamata scherzosamente l’omnibus): vale a dire il senso di una comune vita tra gli artisti, scapigliata e romantica. Sotto questo aspetto, può dirsi che il locale di via Condotti abbia offerto qualcosa di simile al Divan Lepelletier o la Nouvelle Athènes di Parigi, che accoglieva pittori e comunardi.
Si è soliti evocare il caffè come una bevanda sobria, castigata e borghese – così, d’altra parte, la ritroviamo nei dipinti di Pietro Longhi e nelle scene di Goldoni – in contrapposizione all’ebrezza generata dal vino, mentre i luoghi in cui veniva servito (specie nell’Ottocento, quando divennero economici e offrivano un riparo al freddo nelle giornate invernali) costituivano lo sfondo ideale per personaggi da Bohème. Lunga è la lista dei grandi romantici che frequentarono il caffè Greco. Fra i più illustri si possono annoverare Goethe, Schopenhauer, Berlioz, Wagner, Tischbein. V’erano artisti d’ogni nazionalità: Thorvaldsen, il nordico discepolo di Canova, i Nazareni, pittori tedeschi che credevano l’arte perduta dopo la morte di Raffaello, lo scrittore americano Hawthorne, che a Roma scrisse uno dei suoi più singolari romanzi, Il fauno di marmo, Léopold Robert, specializzato in quadri dal pittoresco motivo dei briganti; fra gli italiani Gabriele D’Annunzio, Cesare Pascarella, Angelo Conti, Nino Costa. Ma c’è ancora chi ricorda in tempi assai più recenti andarvi abitualmente De Chirico per conversare e giocare a carte. Nel dopoguerra il caffè Greco non doveva essere poi così cambiato rispetto al Settecento, epoca a cui risale una famosa descrizione di Prud’hon: vi si parlava a gran voce, vi si polemizzava su ragioni estetiche («là tutti i maestri sono passati in rivista. Si critica questo, si stronca quest’altro», scrive il francese) e vi si faceva, soprattutto, un allegro baccano.
Anche questo documento, come altre testimonianze, è riportato nel libro di Angeli, le cui pagine fanno capire come, nonostante le prime metamorfosi che andava subendo la strada, il Greco conservasse un’anima particolare: «Nelle prime case di Via Condotti, fra un negozio elegante di mode e un altro di preziosi oggetti d’arte, c’è ancora una bottega d’aspetto antiquato, che in una lastra di marmo porta scritto in quei caratteri che furono di moda durante il primo scorcio del secolo scorso: Antico Caffè Greco». Quel caffè c’è ancora, chissà quanto durerà… Adesso ad ogni modo è chiuso in seguito ad un contenzioso coi proprietari dell’edificio, l’Ospedale Israelitico, e gli affittuari che sono stati sfrattati. La polvere, dice un verso di Brodskij, è la carne del tempo. Vengono in mente queste parole che possono estendersi a tutte le patine ch’esso lascia sui mobili, sulle boiseries, sui marmi, le stoffe, gli edifici. Patina che dà una vibrazione alle cose e scompare per sempre non appena le si tira a lucido, come in tutti gli sciagurati restauri che stanno funestando il patrimonio monumentale di Roma. Certo, la collezione dell’Antico Caffè Greco è vincolata, ma chi veglierà affinché il locale nella futura gestione non riceva una riqualificazione, non venga, cioè, adeguato al ripugnante gusto della Platonia del dollaro, che vuole edifici identici a Londra, a Copenaghen e a Dubai? Si passeggia per via Condotti per le varie boutiques delle case di moda e non si vedono che superfici nitide, levigate, spazi vuoti e geometrici, moltiplicati dagli specchi. La materia si fa inconsistente, il marmo si smaterializza. Ma una tale impersonalità apolide è l’opposto dello spirito di questo caffè, che riceve la sua unicità dall’angustia delle sue sale rispetto all’abbondanza di arredi, libri, quadri e cimeli, ulteriori testimonianze, oltre alla patina dei versi di Brodskij, della gioiosa vita trascorsa e dello scorrere del tempo. Qualcuno se ne ricordi.