repubblica.it, 21 dicembre 2025
Intervista a Piero Volpi
Piero Volpi, primario di Ortopedia in Humanitas e medico dell’Inter, ha vinto il premio per la medicina sportiva Angelo Quarenghi. “È stato bellissimo. Nel palmarès ci sono personalità immense, ed è intitolato al dottore della Grande Inter. Per me da bambino era un idolo, al pari dei calciatori. Ne parlavo con i miei, in casa”.
Dov’era, casa?
“Affori, periferia nord. Era come un paese, un’isola felice. Era tutto a portata di mano: la scuola, la latteria, l’oratorio”.
Le capita di tornarci?
“Certo, ho lì vecchi amici. Ma trovo un quartiere diverso, multietnico. Da un lato è un arricchimento culturale, dall’altro mi mancano le chiacchiere in milanese”.
Lei parla dialetto?
“Lo capisco. Lo parlavo coi miei nonni e con mia madre. Mi spiace non averlo insegnato ai miei figli”.
Quanti ne ha?
“Due. Mia figlia è imprenditrice, nella moda e nella ristorazione. Mio figlio è commercialista. Ho quattro nipoti, che mi hanno restituito la giovinezza. Da genitore hai troppo da fare, mentre da nonno riesci a tornare col ricordo a quando il bambino eri tu”.
Prima che medico lei è stato calciatore, anche in Serie A. Qualcuno dei suoi nipoti ha ereditato le sue passioni?
“La medicina, vedremo. Quanto al pallone, ho un nipote di 8 anni che gioca e ne sono felice. Mi piacerebbe che tutti i bambini potessero frequentare la scuole calcio, anche chi non ha una famiglia che può permettersi di pagarla”.
I suoi genitori cosa facevano?
“Papà aveva una drogheria, mamma lo aiutava. Ci vedevamo a casa per pranzo, come molte famiglie. Oggi è tutto cambiato, ci sono i ticket restaurant...”.
Meglio per sua figlia ristoratrice.
“Certo, ma i rapporti familiari ne risentono”.
Oggi dove abita?
“In centro. È comodo, ma l’appartenenza si perde. La gente viene e va, tempo per conoscersi ce n’è sempre meno”.
Milano si trasforma. Dove oggi c’è la sede dell’Inter, un tempo c’era il luna park delle Varesine.
“Preferisco la Milano di oggi, sempre più bella. Ma bisognerebbe renderla più accessibile. Vedo affitti altissimi, anche nelle periferie”.
Un luogo magico della città?
“I tre grandi simboli: il Duomo, la Scala e San Siro. Ma sono favorevole al progetto del nuovo stadio. Le cose belle possono vivere nel ricordo. Si va avanti”.
Nelle giovanili del Varese ha conosciuto un giovane Beppe Marotta, oggi presidente dell’Inter.
“Era il factotum. A 15 anni era già d’aiuto per i magazzinieri, per il fisioterapista, per il segretario. Sapeva fare tutto, anche piantare i tacchetti nelle scarpe con martello e chiodi”.
Lei in che ruolo ha cominciato?
“Mezzala. Ma presto sono passato libero, una parola bellissima. Il modello erano Scirea e Turone, difensori tecnici e liberi, appunto, da compiti di marcatura. È un ruolo estinto”.
C’è una sua foto dei tempi del Como in cui alza il braccio per segnalare all’arbitro un fuorigioco.
“Giocavamo contro la Juve. Lasciatemi illudere del fatto che Franco Baresi, più giovane di qualche anno, abbia imparato da me quel gesto. Al tempo, il Var eravamo noi. L’importante era non esagerare, altrimenti gli arbitri non ti credevano più”.
La sua carriera da calciatore è passata per Como, Lecco, Varese. Fra le città c’è grande rivalità…
“Tutti rivali di tutti. Ma senza i social network, l’occasione per mandarsi a quel paese era solo allo stadio, per fortuna”.
Il suo più bel ricordo da calciatore?
“Ho sfidato l’Inter a San Siro con la maglia del Como. Con quella della Reggiana, il Milan in Serie B”.
Chi era il suo idolo in campo?
“Luisito Suarez. Un campione di tecnica, corsa e stile. Da bambino cercavo di copiarlo. Quando sostituì Hodgson in panchina, lavoravo all’Inter. Vicino a lui mantenevo la meraviglia dell’infanzia”.
Il suo modello nella vita?
“I miei genitori, mi hanno dato tutto: educazione, tempo per giocare e valore dell’impegno. I compagni di squadra mi vedevano studiare Medicina in pullman e si stupivano”.
Erano anni in cui le università erano luoghi di contestazione.
“Avevo le mie idee, ma avevo già abbastanza impegni, il tempo era poco. Mi sono laureato a Perugia, giocando nella Ternana”.
Al termine della stagione 1982-83, rifiutò un’offerta del Parma.
“Fu la scelta più importante della mia vita. Ero laureato, dovevo inserirmi al Gaetano Pini e se avessi giocato a Parma non ce l’avrei fatta. Ho rinunciato ai soldi, ma ho costruito il mio futuro. Non mi pento, anzi”.
Quale suo compagno di squadra avrebbe visto bene come medico?
“Aldo Serena. È una persona eccezionale, lo avrei voluto con me in Ortopedia, ma per sensibilità ed empatia sarebbe stato anche un bravissimo pediatra”.
Quali insegnamenti del calcio ha portato con sé nella professione medica?
“Il valore della squadra. Il rispetto per compagni, avversari e arbitri. E il fatto che agli obiettivi si arriva solo con la fatica”.
Ha anche insegnato alla Statale, oggi è professore in Humanitas.
“Gli studenti oggi hanno fretta di arrivare. Noi puntavamo alla formazione, loro al risultato”.
Prima il Pini, poi il Galeazzi, quindi l’Humanitas. Tutte strutture milanesi d’eccellenza.
“Come giocare per Bayern Monaco, Real Madrid e Liverpool. In Lombardia abbiamo un’eccellenza sanitaria a livello europeo. Lo dicono i dati”.
È vero che Javier Zanetti fisicamente era indistruttibile?
“Quelli come lui sono una rarità. Lo paragono a Vierchowod. Un mix di genetica, professionalità e conoscenza del proprio corpo per prevenire gli infortuni”.
Oggi si gioca molto. Per voi medici è una sfida in più?
“Certo. Dobbiamo adeguare il nostro modo di lavorare, visto che indietro non si torna. Bisogna ottimizzare i dati, usare la tecnologia. Con tutte queste partite, i calciatori si allenano poco”.
Che esperienza fu gestire il ginocchio di Ronaldo?
“Fu doloroso anche per noi. Le tecniche diagnostiche e chirurgiche non erano quelle attuali. Campioni come lui o Van Basten avrebbero avuto carriere più lunghe”.
Cosa l’ha colpita della vicenda clinica di Nwankwo Kanu?
“Arrivò dall’Ajax senza che il suo cuore fosse mai stato testato. Aveva un’alterazione importante. Lo tenemmo con noi, lo facemmo curare, e finì la carriera in Premier League. Una soddisfazione enorme. Tutto grazie alla bontà di Moratti”.
Siete ancora legati?
“Certo. Ha fatto la storia dell’Inter e del calcio. Per i giocatori era come un padre, il club era una famiglia. E aveva bene in mente che nel calcio i tifosi ripongono molti dei loro sogni”.
E il suo sogno qual è?
“Nella vita ho fatto più di quello che immaginavo di poter fare. È ora di restituire: con i medici giovani, con i miei nipoti, e anche con Milano. Sono stato bravo a cogliere le opportunità, ma è stata la città a offrirmele”.