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 2025  dicembre 21 Domenica calendario

La figlia di Angelo Del Boca: «Ha sfatato il falso mito di "italiani brava gente". La politica lo odiava ma Montanelli si scusò»

Storico, giornalista, partigiano, Angelo Del Boca è stato una delle voci più coraggiose e lucide del Novecento italiano. Fu il primo a raccontare, con rigore e senza reticenze, il lato oscuro del colonialismo italiano, demolendo il mito consolatorio degli «italiani brava gente». La sua ricerca, condotta spesso in solitudine e tra molte ostilità, ha aperto un capitolo nuovo nella coscienza civile del Paese, unendo alla precisione dello storico la passione del giornalista, testimone del suo tempo. 
A ricordarlo è la figlia Daniela Del Boca, economista di fama internazionale, professoressa all’Università di Torino e Direttrice del centro CHILD e Impact Evaluation Unit del Collegio Carlo Alberto, insignita dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana nel 2007 e del premio Tarantelli per l’Economia del Lavoro. Con lei ripercorriamo la figura del padre e del legame profondo tra il suo impegno e la sua storia personale.
Se dovesse raccontare oggi Angelo Del Boca a un giovane che non lo conosce, da dove partirebbe: dallo storico, dal giornalista, dal partigiano?
«Partirei da Angelo ragazzo che nel gennaio 1944 fu costretto a arruolarsi nell’esercito della Repubblica Sociale Italiana per scongiurare l’arresto del padre: le autorità di Salò arrestavano i familiari dei giovani in età di leva che si rifiutavano di unirsi alle proprie file. Mio padre venne quindi inviato in Germania, addestrato e poi, una volta rientrato in Italia, assegnato alla 4ª Divisione alpina Monterosa. A quel punto prese la decisione – di cui parla in uno dei libri a me più cari, La scelta – di unirsi alla resistenza e combattere le truppe tedesche e i collaborazionisti di Salò. Entrò a far parte della 7ª brigata alpina della 1ª divisione Giustizia e Libertà a Piacenza. In quel periodo, con altri partigiani, arrivò al Castello di Lisignano dove mio nonno, l’architetto Ettore Maestri, li nascose per molti mesi: qui conobbe mia madre Maria Teresa Maestri, la sposò nel 1947 ed ebbe, oltre a me, Alessandra e Davide. Poi, molti anni dopo, l’ultima figlia Ilaria».
Poi che avvenne, a guerra finita?
«Nel dopoguerra si dedicò alla scrittura e al giornalismo: in pochi anni divenne redattore capo del settimanale socialista Il Lavoratore e successivamente inviato speciale per la Gazzetta del Popolo e per Il Giorno. Nel 1981, con l’avvento di Bettino Craxi, decise di abbandonare il giornale e si concentrò sullo studio del passato coloniale italiano; ciò gli permise di scrivere numerosi libri sulla campagna di Benito Mussolini in Africa orientale e sulla riconquista della Libia. Mio padre fu tra i primi studiosi italiani a denunciare le atrocità compiute dalle truppe italiane in Libia e in Etiopia, talora persino coll’impiego di gas contro le truppe combattenti e la popolazione civile».
Per queste sue testimonianze suo padre si trovò a fronteggiare ostilità, accuse, persino minacce. Lei ricorda come viveva, in famiglia, quelle tensioni?
«In quegli anni molti politici e storici hanno polemizzato e attaccato la sua visione. Tra questi anche il giornalista Indro Montanelli, il quale sosteneva che quello italiano fu un colonialismo “mite”. Tuttavia Montanelli dovette poi scusarsi pubblicamente quando mio padre dimostrò, documenti alla mano, l’impiego di tali mezzi di distruzione. Solamente nel 1996 l’allora ministro della Difesa, Domenico Corcione, ammise che sessant’anni prima in Abissinia furono impiegati bombe d’aereo e proiettili d’artiglieria caricati a iprite e arsina, e che l’impiego dei gas era noto al maresciallo Badoglio e a Mussolini. Sono stati anni angosciosi, ma mio padre non aveva perso il coraggio del giovane partigiano e ci diceva la verità, senza spaventarci troppo».
Come corrispondente internazionale Del Boca ha viaggiato moltissimo, in Africa e in Asia: vi raccontava le sue avventure?
«Sì, quando tornava erano momenti bellissimi, ci intratteneva con storie emozionanti: a noi bambini sembrava di aver conosciuto non solo gli uomini e le donne importanti che aveva intervistato, ma anche i bimbi africani che incontrava: uno di questi era diventato parte del nostro lessico familiare, si chiamava Otumlo. In quei viaggi partecipò a eventi straordinari come il processo ad Adolf Eichman e intervistò personaggi come Muammar Gheddafi, Albert Schweitzer, Madre Teresa di Calcutta e molti altri».
Ci racconta un aneddoto legato alla sua professione di inviato speciale?
«L’intervista con Gheddafi è stata particolarmente avventurosa e piena di incognite. Quando Gheddafi gli accordò l’intervista mio padre aveva più di settant’anni e in famiglia eravamo tutti preoccupati per il viaggio: da quando l’Onu aveva decretato l’embargo nei confronti della Libia non si poteva raggiungere Tripoli in aereo, bisognava atterrare a Djerba e da lì proseguire in auto per un lungo tratto. Una volta arrivato a Tripoli iniziò per mio padre una lunga attesa, dal 18 novembre sino alla fine del mese. Gheddafi era sempre in viaggio e in posti segreti che cambiavano continuamente per motivi di sicurezza. Solo il 30 novembre, quando ormai aveva perso le speranze di incontrarlo, arrivò la conferma che il colonnello lo avrebbe ricevuto nella sua tenda di Bab al Aziziyyah. L’intervista durò varie ore e da questa pubblicherà, nel 2014, il volume “Gheddafi. Una sfida dal deserto”».
Molti dei suoi libri, da «Gli italiani in Africa Orientale» a «Italiani, brava gente?» hanno cambiato il modo in cui l’Italia ha riletto sé stessa e il proprio passato. Lei crede che oggi suo padre si sentirebbe ascoltato?
«Sì, di sicuro: ancora oggi, dopo la sua morte, vengo contattata da giovani studenti e studiosi che hanno partecipato agli eventi in suo ricordo e che mi chiedono materiali del suo archivio».
Che padre era, nella vita quotidiana?
«È stato un padre affettuoso, che ha trasmesso a me e ai miei fratelli valori molto forti solo con il suo esempio. Nell’economia della famiglia – che è uno dei miei principali campi di studio – si descrivono vari “stili parentali” fondamentali per lo sviluppo cognitivo dei figli: lo stile autoritario, passivo o indifferente e autorevole. Senz’altro era un padre autorevole: non ci ha quasi mai sgridato, ci ha ispirato con il suo esempio, la sua passione per il lavoro, il rispetto per gli altri».
Nel suo ultimo libro, «Nella notte ci guidano le stelle», scriveva: «Combatto non per la Patria ma per rivedere il volto di mia madre».
«Ai suoi funerali ho ricordato proprio questa frase, ai miei occhi è emblematica di quello che era il suo rapporto emotivo con il mondo»