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 2025  dicembre 21 Domenica calendario

La Città del Sole arroventa il Novecento

Spesso le vicende editoriali di un autore somigliano alla sua biografia. Anche a distanza di secoli può succedere che quel crisma si confermi come un destino. Prendiamo il filosofo calabrese Tommaso Campanella, nato a Stilo nel 1568 e morto a Parigi nel 1639. Niente di più intricato nell’opera come nella vita. La storia del suo libro più famoso, La Città del Sole, è ancora un garbuglio da sciogliere: lo dimostra il volume appena uscito nella Nuova Universale Einaudi, a cura di Luca Addante, che riprende e aggiorna l’edizione 1941 di Norberto Bobbio.
Ma cominciamo dalla vita. Figlio di uno «scarparo» analfabeta e poverissimo, Campanella trascorre l’infanzia in una terra saccheggiata da feudatari, pirati berberi e banditi comuni. Entra nell’ordine domenicano a 13 anni per sfuggire a un ambiente di «spaventevole bassezza». Ammiratore delle teorie eterodosse del naturalista rinascimentale Bernardino Telesio a cui ventenne dedica un’orazione funebre che lo pone in contrasto con le autorità ecclesiastiche, viene costretto a lasciare Cosenza per essere confinato nell’entroterra calabro, in un minuscolo convento di Altomonte. Curioso di tutto lo scibile, dalla medicina all’astrologia, antiaristotelico, indifferente agli ordini dei superiori, processato più volte per «frequentazione di demoni», arrestato per aver discusso con un ebreo in materia di fede, viaggia a Roma, Firenze, Bologna, Padova (dove conosce Galileo), sempre minacciato dalla mannaia dell’Inquisizione.
Ritenuto nel 1599 il capo spirituale della fallita congiura dell’«aspettata nova redenzione» (famoso verso di un suo sonetto) contro la Spagna e la Chiesa, un sogno di rivolta popolare a un regime secolare, Campanella finisce nel carcere di Napoli per lesa maestà ed eresia. Subirà torture atroci e sopporterà con inflessibile carattere 28 anni di reclusione simulando la follia per evitare insieme il pentimento e la condanna a morte. Durante la prigionia indirizza lettere ai dotti e ai potenti della terra, compone, amplia, riscrive opere filosofiche in latino e in italiano, per un totale di almeno trentamila pagine: tra queste, la deposizione rilasciata dopo l’arresto, i trattati di metafisica e di teologia, le poesie, l’Apologia pro Galileo.
Sempre in carcere scrive di getto, nel 1602, il dialogo La Città del Sole, che verrà rimaneggiato e ampliato in anni successivi, e tradotto in latino nel 1614: la versione latina esce a Francoforte nel 1623 (nell’attuale volume einaudiano la Civitas Solis segue l’originale italiano, esattamente come nell’edizione 1941). Ristampato per volontà dell’autore nel 1637 a Parigi, dove, per evitare l’ennesimo arresto, Campanella era riparato da qualche anno con l’aiuto del pontefice Urbano VIII, il dialogo si svolge tra due personaggi: un Ospitalario (cavaliere dell’ordine degli Ospitalieri di san Giovanni a Gerusalemme) e un Genovese, immaginario timoniere di Cristoforo Colombo. Quest’ultimo dà conto al suo interlocutore dell’approdo nella città del Sole, che si trova nell’isola di Taprobana (probabilmente Sumatra, in Indonesia) sulla linea dell’equatore. Il Nocchiero, che vi è giunto dopo aver circumnavigato «il mondo tutto», descrive la struttura di quella città ordinata e rigorosa, tra polis greca e ideale urbanistico rinascimentale, la cui pianta circolare è costituita da sette gironi, con al centro un tempio del Sole.
Quel che colpisce il visitatore è il governo della città, con le sue leggi, i costumi, le relazioni tra i sessi, la riproduzione pianificata a fini eugenetici, l’impostazione economica decisamente comunistica, visto che la proprietà privata dei beni e degli affetti è considerata fonte di discordie e di rovina. Su queste basi, la città garantirebbe la naturale felicità umana sul modello, esplicitamente citato, della Repubblica di Platone. Si aggiunga il contributo della religione naturale sottratta alla rivelazione e fondata sulla ragione, sui sensi e sull’osservazione della natura.
Leggere l’Introduzione di Bobbio è un autentico piacere per la mente, specie quando il filosofo torinese si sofferma sul temperamento non solo intellettuale ma anche psicologico di Campanella, sul suo «carattere di disordinata improvvisazione» e sui «misteriosi smarrimenti», sui «furti clandestini», sui «subitanei e molteplici rifacimenti» cui furono soggetti i suoi testi, sul «gigantesco ed affannoso lavoro, compiuto in stato di agitazione spirituale e di materiale disagio». Bobbio si inoltra poi, sulla base dell’esame di tredici manoscritti (non autografi ma coevi dell’autore), nella vicenda altrettanto tormentata della Città del Sole, che occupa pressoché tutta la vita del pensatore di Stilo, «scrittore di facile vena, rapido, impetuoso». Addirittura, quasi a precocissima imitazione della critica degli scartafacci di Gianfranco Contini, Bobbio ci informa su come lavorava Campanella: «Non per accrescimento organico, ma per giustapposizione». E continua segnalando come le correzioni siano dettate non tanto da ragioni interne, ma da «estranei influssi, timore di nuove persecuzioni o speranza di favori»: pentimenti dettati più da esigenze personali che filosofico-letterarie.
Nella ricca Postfazione (un libro nel libro), Addante si pone una domanda che apre molti scenari: perché Bobbio, dopo il successo della prima edizione, rinunciò a condurre in porto la seconda, che pure aveva promesso all’editore e ampiamente avviato? Va detto che il lavoro fu suggerito da Leone Ginzburg (fondatore e gran regista dell’Einaudi) e seguito dal filologo Santorre Debenedetti, direttore della collana «Nuova Raccolta di Classici Italiani Annotati», che già vantava una prima prestigiosissima uscita con le Rime di Dante curate da Contini. L’idea editoriale era nata dal fascino che il filosofo utopista suscitava negli ambienti torinesi antifascisti, sia quelli legati a «Giustizia e Libertà» (di cui Ginzburg era esponente apicale) sia quelli attinenti al Partito d’Azione (a cui era più vicino Bobbio). Lo stesso maestro di Bobbio, Gioele Solari, aveva animato un acceso interesse nei confronti di Campanella: tra i suoi allievi spiccavano diversi protagonisti del liberalsocialismo, a cominciare da Piero Gobetti, per proseguire con Alessandro Galante Garrone e Franco Antonicelli.
Emerge poi la figura di un più giovane allievo di Solari, Luigi Firpo, vero deuteragonista del libro, che diventerà l’esperto massimo di Campanella, biografo, editore, commentatore e curatore di molte sue opere. Ma basti dire qui che Bobbio e Firpo intratterranno un lungo sodalizio e scambio campanelliano tra alti e bassi. Non senza divergenze – a volte franche, a volte dissimulate – di carattere sia filologico sia interpretativo, per lo più ammantate di reciproco (e non si sa quanto sincero) riconoscimento. All’uscita del ’41, Bobbio riceve da Firpo il rimprovero (spacciato per essere condiviso da molti) di avere «accompagnato una edizione critica sotto ogni aspetto rigorosa e lodevole con una introduzione che è una vera e propria svalutazione, per non dire demolizione, dell’Autore riprodotto». Bobbio non ci sta e risponde per le rime. Così come risponde alla stroncatura del suo maestro Solari. Si inserisce poi il ritrovamento («bluff» lo chiama Addante), da parte di Firpo, di un manoscritto trentino che secondo lo scopritore è un testimone irrinunciabile e che per Bobbio risulta invece irrilevante: tesi, quest’ultima, a conti fatti implicitamente accolta dal collega più giovane. Insomma, i rapporti di pubblica e reciproca ammirazione tra i due studiosi non finiranno mai di essere ambivalenti, a maggior ragione se si aggiunge il fatto che Bobbio, negli anni, ha dedicato all’edizione firpiana della Città nient’altro che un «eloquente silenzio», come lo definisce Addante.
Altra seria contesa fu quella che vide opporsi da una parte l’idea di un Campanella «riformatore dell’impossibile» ed eretico (nel solco degli «eretici» italiani studiati da Delio Cantimori) rivendicata e sostenuta con decisione da Bobbio; e dall’altra invece la tesi revisionista di un’ala cattolica conservatrice, che vantava il suo massimo esponente in Romano Amerio e che trovò in Firpo un adepto convinto, secondo il quale con la carcerazione Campanella aveva vissuto una conversione in senso ortodosso e dogmatico. Insomma, nella rinuncia di Bobbio intervennero numerosi fattori (non ultimo forse l’invito di Debenedetti a rivedere alcuni punti della Nota al Testo): ma prevale la convinzione che, nella sostanza, una seconda edizione, a parte le correzioni di alcuni errori meccanici (che Addante accoglie), sarebbe stata non molto diversa dalla prima.
Ne viene fuori un imbarazzante contrasto tra quel misto di mitezza, trasparenza e fermezza di Bobbio e quella sorta di ondivago opportunismo esibito da Firpo. Il quale alla fine riuscì a dissuadere l’amico-concorrente dal continuare a occuparsi di Campanella (su cui Firpo vantava una bibliografia almeno quantitativamente notevole) per orientarlo verso Thomas Hobbes offrendogli generosa ospitalità presso una collana della Utet da lui diretta. A dirla tutta, è difficile leggere la postfazione di Addante senza avvertire l’eco del memoir Lo zio «Verde», l’Utet e altre storie di famiglia, dove troviamo le impietose pagine dedicate dai fratelli Firpo, Alessandro e Massimo, al loro padre Luigi. Un libro di feroce sincerità.