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 2025  dicembre 21 Domenica calendario

Intervista a Caterina Caselli

Com’era la stanza da bambina di Caterina Caselli?
«Noi eravamo una famiglia povera, la nostra casa era costituita da due stanze. Nella prima c’era un lettone sul quale dormivamo mia madre, mia sorella Liliana ed io. Mio padre riposava su un letto più piccolo, nella stessa stanza. Nell’altra c’era la cucina, il tavolo da pranzo che poi diventava quello su cui lavorava mia mamma, che di mestiere faceva la magliaia e teneva la macchina in casa. Insomma in una stanza si viveva, nell’altra si dormiva».
Parlami della tua famiglia, in quella casa.
«Mio padre proveniva, attraverso sua madre, da una importante famiglia di proprietari terrieri. La casa dove noi abitavamo era in realtà una grande residenza che, dopo la guerra, la famiglia di mia nonna ha dovuto svendere a dei contadini. Mio padre aveva però ottenuto di affittare quelle due stanze. Quella originale era una casa enorme, con gli affreschi, una cappella, tipica delle tenute importanti. Mio padre amava molto un quadro che riproduceva un’opera di Raffaello. E si raccomandava: “Quel quadro deve rimanere lì”. Sono andata pochi anni fa a ricercare quelle due stanze. E il quadro l’ho trovato ancora lì, dove mio padre lo aveva messo».
Fino a quando sei restata in quella casa?
«Fino alla quarta elementare. Poi ci siamo spostati da mia zia, tra Magreta e Sassuolo. Era una comunità di figli di contadini. E c’era una grande solidarietà tra poveri. Rammento quegli anni con tenerezza, era un ambiente vivace. Me le ricordo tutte, le ragazze che lavoravano con la mamma: una, Anita, aveva il fidanzato che faceva il militare e ogni giorno imbucava una lettera per lui, si chiamava Lello. Un’altra, Maria, era piena di lentiggini che odiava e allora la mattina si metteva il trucco per nasconderle. Ricordo che era una grande appassionata di gialli, Maria. Io ero una ancora una bambina e ero affascinata dalle loro storie. Avevamo poco, ma speravamo tanto».
Come hai incontrato la musica?
«A Sassuolo, dietro la mia scuola, c’era un’insegna bellissima con su scritto: “Maestro Callegari, maestro di canto e di musica”. Andai da mia mamma e le dissi che ci volevo andare, a tutti i costi. Da ragazza avevo immaginato tre possibilità per il mio futuro: cantante, hostess, missionaria in Africa. Volevo comunque girare il mondo, uscire da quel luogo che mi stava stretto. Caldo, ma stretto, volevo andarmene. Mi sembrava una vita limitata, una vita angusta».
Tua mamma come reagì?
«Mi disse: “Te lo scordi, perché quello della cantante non è un mestiere da donna. Le donne la sera devono stare a casa, non in giro. Tu devi trovare un buon partito e sposarti.”. Fu mia zia a dire “Che sarà mai?” e mi portò in quella che per me era l’anticamera del Paradiso».
Dimmi di tuo padre.
«A lui piaceva che cantassi, era un mio grande sostenitore in questa piccola tenzone familiare. Ma è morto quando avevo quattordici anni. Si è tolto la vita. Soffriva di depressione, che allora non veniva riconosciuta come tale. Era stato da ragazzo in Libia come militare. Chissà cosa ha visto in quei nove anni».
Età terribile, i quattordici anni, per una perdita simile.
«Sì, ho sofferto molto. Non volevo più tornare a scuola. Mi vergognavo per quella morte e per il suo modo. Sarò sempre grata al professore di lettere, si chiamava Cortesi, che quando tornai a scuola ci assegnò il tema “Il più grande dolore della vostra vita”. Evidentemente voleva che tirassi fuori la mia disperazione. Ricordo le parole finali del mio componimento: “Vorrei morire d’inverno, coperta dai fiocchi di neve”. Mi diede nove, l’unico della mia vita scolastica, e volle leggere il tema in classe. In questo modo mi liberò dal peso di raccontare alle mie amiche il mio dolore. Quando seppe che mi piaceva cantare si era messo in testa che dovevo avere un nome d’arte spagnoleggiante: Catierra Calsiente».
Cosa è mutato, nella vita della tua famiglia, dopo la morte di tuo padre?
«Abbiamo di nuovo cambiato casa. Ci siamo avvicinate a Sassuolo. Mia madre lavorava a maglia, ma tirare avanti da sola con due figlie non era facile. Io volevo assolutamente cantare e imparare a suonare uno strumento. Ma non c’erano certo soldi per questo. Perciò decisi di andare a lavorare come segretaria in una azienda di confezioni per bambini. Questo mi consentì di acquistare prima un registratore per registrare le lezioni e studiare a casa e poi una chitarra basso che ho tenuto con me per anni».
Quando e come inizia la tua carriera?
«Una sera, con l’Orchestra Callegari, eravamo a Scandiano. Vennero a sentirci Maurizio Vandelli dell’Equipe 84 e Pier Farri. Vandelli mi disse che ero sprecata in provincia, che dovevo andare a Roma, dove tutto si muoveva, tutto stava cambiando. Per me Roma era un luogo di sogno, tipo New York o Londra dove c’erano i gruppi musicali che amavo, come i Beatles e i Rolling Stones. Era quello il mio miraggio: andare dove stava esplodendo quella energia, dove il mondo si scrollava di dosso le vecchie catene».
A Roma ci arrivi…
«Sì, in un locale che si chiamava Capriccio, vicino a via Veneto. Vennero a sentirmi Gianni Minà, Gino Paoli e soprattutto arrivarono Bornigia e Crocetta, i due proprietari del Piper. Il Piper già allora era una specie di Eden che risuonava nell’immaginazione dei ragazzi degli anni sessanta. Fui ingaggiata e divenni la prima ragazza del Piper. Gianni Ravera, che mi aveva conosciuto a Castrocaro dove non ero arrivata in finale, convinse il proprietario della CGD, Ladislao Sugar, a venire al Piper. Immagina la scena: tutti quei ragazzi scatenati, le ragazze in minigonna, i capelli al vento dello shake e un signore austero, con vestito e cravatta che si trova in mezzo a loro. Era un profugo ungherese fuggito nel 1933 che era diventato il riferimento di buona parte della discografia italiana. Venne da me e mi disse: “Ascoltando lei, tutto il resto mi è sembrato vecchio”».
Tua madre a quel punto si era convinta?
«Macché, quando sono venuta a Roma non mi ha dato una lira. Mi disse che, se volevo inseguire la mia passione, dovevo farcela da sola. Allora ne ho sofferto. Ma ora penso che abbia fatto bene. Mi ha insegnato a non mollare, a faticare per dimostrare che lei poteva avere fiducia in me».
Tuo padre era di idee socialiste?
«Sì lui sì, molto convinto. Mia madre invece era democristiana, lo zio Cesare era comunista e, ahimè, lo zio Giorgio era fascista. Eravamo un parlamento, non una famiglia. E quelle idee socialiste mi sono rimaste dentro, sempre. Molti anni dopo ho incontrato e apprezzato Bettino Craxi. La mia formazione, i miei valori, sono quelli. Giustizia sociale e libertà».
Come descriveresti l’atmosfera degli anni sessanta?
«Il tempo delle possibilità. Nulla sembrava precluso, nessun muro sembrava intangibile, nessuna autorità era assoluta. Un periodo magico, di leggerezza e di passione. Non ci rendevamo conto di quello che ci stava accadendo. Era un’atmosfera di gioia. Ma gioia consapevole, non egoista».
La si avverte quella allegria, semplice, anche nei musicarelli. Tu ne hai fatti tanti.
«I produttori erano attratti dai cantanti e dai titoli delle canzoni di successo, che diventavano poi il nome dei film. Allora la musica moderna non si sentiva tanto in tv e alla radio e allora si andava al cinema anche per vedere i propri beniamini e per ascoltare le canzoni. Con i primi musicarelli la Titanus si rimise in piedi dopo il fallimento seguito alle spese per il Gattopardo. Per me era bellissimo recitare con attori come Nino Taranto, Laura Efrikian, Vittorio Congia. Pensa che i due produttori più attivi in quel genere – Bonotti e Carbone, uno napoletano e uno romano – vennero da me alla Bussola e mi offrirono un rinnovo del contratto con un aumento di cinquecentomila lire. Io gli chiesi se erano matti, visto quello che avevano guadagnato con Nessuno mi può Giudicare. E Il napoletano allora disse subito, senza batter ciglio: “Vabbè vanno bene dodici milioni?”. Ci avevano provato…».
Prova a spiegare cos’era il Cantagiro. Oggi una manifestazione impensabile.
«Era incredibile sfilare su macchine scoperte per tutta l’Italia con la gente che ti toccava, ti strattonava, ti baciava. Allora ero nel girone dei giovani. Si facevano le sfide a due e io perdevo ogni volta. Cantavo Sono qui con voi ma poi, l’anno dopo, arrivò Sanremo e tutto cambiò».
Già, il trionfo di «Nessuno mi può giudicare».
«Pensa che Celentano rifiutò quel brano. E il pezzo passò da un uomo a una donna, capovolgendo positivamente il senso di quel titolo. Pensa se Nessuno mi può giudicare fosse stato detto da un uomo adulto e non da una ragazza diciottenne. Arrivai con i capelli a casco ideati dai Vergottini. E il tutto diventò una specie di filo che legò quella canzone, e me, al bisogno di libertà dei ragazzi dalle autorità di quel tempo. Il più bel complimento l’ho ricevuto da una signora più grande di me a Ischia. Mi disse: “Voi mi piacevate perché eravate così prepotente... Non vinsi, ma vendetti un milione di copie. Quando i dischi si vendevano. Mi resi conto, da quel momento, che anche io potevo avere la faccia del successo. Perché allora pensavo che esistesse una faccia speciale, per chi ce l’aveva fatta».
L’anno dopo torni al Festival, ma è l’edizione segnata dal suicidio di Luigi Tenco.
«Ero al Savoy anche io, quella sera. Non sentii gli spari, ma avvertii un gran vociare. Aprii la porta della stanza e c’era Lucio Dalla in vestaglia, sconvolto. Non ricordo molto altro. Ho rimosso tutto. Anche perché quel suicidio a me faceva un dolore particolare, per la mia storia. Ricordo solo che volevo andare via, subito. Poi decisero di proseguire il festival e io fui contenta di non essere in finale. Volevo mettere chilometri tra me e quel posto, tra me e quel fatto».
Hai inanellato successi per anni: «Perdono», «Tutto nero», «Sono bugiarda», «Il Carnevale», «Il volto della Vita», «Cento giorni», «Il cammino di ogni speranza», fino alla meravigliosa «Insieme a te non ci sto più». Poi hai smesso, di colpo. Perché?
«Per anni ho condotto una vita spericolata, girando in auto per tutta l’Italia. Poi mi sono innamorata di Piero Sugar, mi sono sposata, un anno dopo ho messo al mondo un figlio. Sentivo dei doveri verso altri. Una cantante deve farlo a tempo pieno, ha anche qui dei doveri, ma verso il pubblico. Ho smesso, ma dopo un po’ avevo voglia di rimettermi alla prova. Allora, come un calciatore che finisce di giocare e decide di fare l’allenatore, ho voluto fondare, all’interno della CGD, una etichetta che ho chiamato, non per caso, “Ascolto”. Producemmo gli Area con Demetrio Stratos, Mauro Pagani e Pierangelo Bertoli. Lui suonava con gli amici nelle pizzerie emiliane. Il mio vecchio chitarrista mi mandò un nastro, finanziato dal presidente del Sassuolo Calcio del tempo. Ascoltai Eppure soffia e rimasi affascinata dalla canzone e dalla sua voce».
Anche conclusa l’esperienza di «Ascolto» hai scovato un sacco di talenti…
«Bocelli innanzitutto. Elisa, Negramaro, Malika Ayane, Avion Travel, Gualazzi, Madame, Lucio Corsi e molti altri. Mi è sempre piaciuto ascoltare le figure nuove della scena musicale e aiutarle a trovare un’identità. Poi ci sono talenti che non ho scoperto io, ma che sono fiera di avere potenziato, come ad esempio Paolo Conte, per il quale negli anni ‘80 abbiamo firmato il contratto discografico con Le Chant Du Monde che ha originato, insieme al lavoro del manager Renzo Fantini, il suo successo internazionale. Poi nel 2023 siamo riusciti a realizzare il sogno di portarlo ad esibirsi alla Scala. Ora dell’azienda si occupa benissimo mio figlio Filippo e io posso rivolgere lo sguardo a un tipo di musica che conosco meno, ma che mi affascina moltissimo. Con Anna Leonardi, che ne è responsabile, seguiamo la musica classica e sperimentale, comprese le magnifiche opere di musica assoluta composte da Ennio Morricone, come Partenope, andata in scena con la regia di Vanessa Beecroft in anteprima mondiale al San Carlo di Napoli».

Quanto ti manca tuo marito, scomparso tre anni fa?
«Mi manca il confronto con lui. Era una persona colta, meditativa. Posso dire che mi fa compagnia la sua assenza, tanto mi ha lasciato dentro».

Se sei d’accordo possiamo parlare della tua malattia, che hai affrontato con forza.
«Nel 2017 mi è stato riscontrato un carcinoma invasivo alla mammella. Ho fatto una terapia innovativa che non ha funzionato e poi sono passata alla chemioterapia. Mi sono caduti i capelli a ciocche, il parrucchiere a un certo punto me li ha tagliati con la macchinetta. Mi fecero una parrucca di capelli veri. Perché io volevo andare da mia mamma, che anche lei non stava bene, senza farla preoccupare. Non si accorse di niente. Io sono stata anche recidiva e quindi proseguo cure e controlli e al momento sto bene. Ma quello che più mi aiuta è il lavoro. Mi distrae, mi mette energia, mi spinge a non fermarmi».
Cosa pensi delle nuove frontiere del rapporto tra musica e intelligenza artificiale?
«Dovremmo usarla, non farci usare. Guidarla, non farci guidare. Mi dispiace che siano spariti i dischi, con quelle meraviglie che erano le copertine che erano importanti, non meno del suono. Pensa a quelle dei Beatles o di Battisti o dei Velvet Underground. Però sono felice che stia riprendendo l’acquisto del vinile, dei trentatrè giri. Quando si sente quel suono sembra di riassaporare la musica com’è davvero. Noi siamo analogici, noi ci rapportiamo con la natura e i suoi tempi. Adesso si pretende che un germoglio d’ulivo produca subito meravigliose olive. Ma non è così. Non bisogna avere fretta. Le cose belle hanno bisogno del loro tempo».