repubblica.it, 19 dicembre 2025
Intervista a Gazebo
Gli anni 80, l’italodisco, il successo internazionale e quello (non esattamente voluto) arrivato grazie a un cinepanettone. Paul Mazzolini, in arte Gazebo, è un giramondo: nato a Beirut, ha vissuto in diversi Paesi prima di stabilirsi a Roma. All’inizio degli anni 80 ottenne il suo primo grande successo con Masterpiece, seguita poi da I like Chopin. Due brani che lo hanno trasformato in una icona di quel decennio. Da poco sono stati pubblicati due remix proprio di I like Chopin 2025, curati da Christian Marchi, entrati rapidamente ai primi posti delle classifiche.
Come è nata l’idea di questi due remix?
"Per I like Chopin ogni mese mi arrivano proposte di remix ma le ho ho sempre respinte. Il remix tende a occuparsi di un solo segmento, che poi è quello ritmico, ma lo trovo riduttivo. Questa volta la proposta mi è piaciuta perché va oltre le formule della dance di oggi, l’ho trovato molto rispettoso. Su queste cose vado molto a istinto”.
Partiamo dalle origini. Era un capellone, un po’ sovrappeso, appassionato del progressive. E frequentava un liceo romano molto esclusivo.
"Non ero l’archetipo di quelli che andavano in quella scuola. Mio padre era un diplomatico, ho iniziato a suonare mentre ero in Danimarca: i miei mi avevano iscritto in una scuola sperimentale un po’ hippy. Se ti annoiavi a fare matematica, i professori capelloni ti spiegavano Dylan e Beatles. Poi sono cresciuto ascoltando Led Zeppelin e Deep Purple, quando sono arrivato a Roma ero un capellone: in quella scuola ero una mosca bianca, un personaggio. All’epoca c’erano appartenenze politiche, non potevi andare ovunque: io non avevo una grande passione per la politica, ma per l’iconografia di quell’epoca ero identificato come un compagno”.
Ha venduto anche enciclopedie porta a porta.
"Presi un anno sabbatico dopo il diploma, mi sono iscritto a Lettere ma sono andato subito fuori corso. Ho cominciato a andare a Londra per vedere i concerti e i festival. Cercavo di registrare i miei pezzi, volevo alcune attrezzature da studio, facevo ogni tipo di lavoro per pagarle. Feci anche un corso di informatica, studiavo teatro e canto lirico e ho anche venduto enciclopedie porta a porta. È stata una scuola importante, impari a vivere e impari la fatica”.
In quei suoi viaggi londinesi era entrato nel mondo del new romantic, faceva parte del giro del Blitz, il club dove tutto quel movimento si è formato.
"Il Blitz era un posto unico, che univa il mondo trasgressivo e la dance. Era l’epoca del post punk, ognuno cercava di crearsi un’identità utilizzando vestiti particolari, magari presi in prestito dai teatri, c’era un’atmosfera libera di divertimento in cui ognuno interpretava un personaggio. Era il mondo decadente di Rusty Egan, c’erano Marilyn e Boy George, sembrava di entrare in un parco giochi, con questi mondi sonori fatti da Ultravox e Kraftwerk, mandati dai dj a mezza velocità. Boy George lavorava al guardaroba, era famoso perché fregava i soldi dai cappotti. Ancora oggi sono molto amico di Tony Hadley, ex cantante degli Spandau Ballet. Beve tantissimo, quando viene a Roma so che dovrò stare due giorni col mal di testa: mischia tutto l’alcol, è capace di bere da solo una bottiglia di limoncello”.
Poi è arrivato “Masterpiece”. Come andò?
"Arrivò dopo un periodo trascorso a Londra. Lavoravo con Pierluigi Giombini, un vecchio amico musicista che condivideva con me la passione per il prog. Mi fece sentire la strofa e mi venne in mente l’inciso, pensai a Gloria Swanson in Viale del tramonto. Mi venne in mente il capolavoro: per un attore il capolavoro è mettere in scena la propria morte. L’idea era di metterci una musica in chiave Blitz. Era un pezzo nato di getto”.
Come venne accolto?
“Quando ho capito che la canzone poteva essere pubblicata ho iniziato a girare per le case discografiche. Me ne hanno dette di tutti i colori: “Lo diamo a Bobby Solo, ma perché canti in inglese”. Paolo Micioni, che all’epoca era un produttore importantissimo, capì molto del pezzo, lo registrammo con pochi soldi, in studio c’era una batteria elettronica eccezionale di Jimmy Fontana, che comprava strumenti modernissimi e poi li lasciava in giro. Grazie a quella drum machine nacque il suono della italodisco”.
Il salto definitivo è arrivato con “I like Chopin”. Che vita faceva in quel periodo?
“La grande svolta è arrivata con la Baby Records. Che ha messo sul piatto la tv, le grandi radio, era un’etichetta dinamica, con Freddy Naggiar, che era il boss, c’è stata subito empatia. Decidemmo come dovevo presentarmi, gli dissi “voglio essere elegante, guardare in camera, essere uno specie di Grande Gatsby”. Lui era scettico ma mi ha dato retta e ha funzionato: non sapendo ballare era l’unico modo per essere credibile. La vita era piuttosto animata. Bisognava andare fisicamente nelle tv di tutti i Paesi, ho passato due anni tra alberghi e aeroporto. A quell’età ti diverti, ho incontrato nei camerini tante star come Joan Baez, ho incrociato Elton John durante uno show in tv e mi fece un in bocca al lupo. Peter Gabriel, che da appassionato di prog era il mio idolo, non ebbi il coraggio di andare a salutarlo”.
Ha fatto epoca la scelta dei fratelli Vanzina di inserire “I Like Chopin” in “Vacanze di Natale”. Come andò?
"L’accordo è stato fatto con la Baby, l’ho saputo a cose fatte. Carlo Vanzina mi confessò anni dopo che senza il pezzo il film non aveva senso. Anche lui e suo fratello hanno frequentato la mia scuola. Pure Alberto Angela, che veniva a tutti concerti”.
Con quel film è entrato nell’immaginario collettivo. Ma a lei piacevano i film d’autore. Cos’ha pensato quando ha visto il film?
"All’epoca per me era incomprensibile, era un umorismo che non mi apparteneva. Confesso che non sono mai riuscito a vederlo tutto. Con Jerry Calà però siamo molto amici. Una volta mi hanno chiamato a cantare al Vip Club di Cortina: pensavo non esistesse. Mentre ero nella hall dell’albergo ho incontrato un farmacista di Terni col montone: sembrava un personaggio del film. Gli ho chiesto che macchina avesse, ovviamente una Ferrari. Gli ho detto “facciamo uno scherzo a Calà, gli facciamo la scena iniziale del film”. Sono sceso col montone, ho fatto la scena, ho fatto anche un video. Calà ha riso molto”.
Era molto amato dalle fan.
"Devo tutto a loro, io non ero certo un conquistatore. Il giovedì sera da ragazzo andavo al pub perché c’erano le baby sitter irlandesi: dopo 3 pinte magari era più facile. Quando Masterpiece iniziò a funzionare la Baby mi portò in un negozio di dischi e il proprietario mi disse “ma sai quante ragazzine devo gestire ogni giorno per colpa tua?”.
Che rapporti aveva con i suoi rivali dell’epoca? Righeira, Sandy Marton, Gary Low?
“I Righeira mi ricordavano i Devo, un gruppo che adoravo, mi sono piaciuti subito. Siamo rimasti amici, Johnson è uno dei pochi musicisti che frequento. Sandy Marton è arrivato dopo, me ne parlava Cecchetto, lui sì che era bellissimo: è croato e abbiamo fatto amicizia parlando nella sua lingua. Con Gary Low ci fu un malinteso: la Baby Records fece il gioco delle tre carte con You are a danger, che pubblicarono senza inserire il mio credito. I primi tempi ci guardavamo un po’ storto, poi gli spiegai cosa era successo e siamo diventati amici”.
Poi il successo è svanito. Come ha reagito?
“Dopo il secondo album ci furono screzi con la Baby, volevano un disco di successo ma io volli fare altro. Poi partii militare, sono stato fuori per un anno, la Baby cominciò a cercare altre strade. Mi stavo allontanando dall’italodisco, arrivammo alla rottura, chiesi di liberarmi ma dovetti dargli la metà dei miei guadagni. Ricominciai a fare dischi da zero, facevo tutto da solo, ma si faceva presto a essere dimenticati. Quando mi sono accorto che gli altri erano andati altrove, sono diventato ancora più donchisciottesco. La mia caparbietà mi ha impedito di essere depresso, ho incontrato la mia compagna, abbiamo messo su famiglia. Avevo investito su una casa e uno studio, ho fatto la mia seconda gavetta negli anni Novanta, poi per fortuna negli anni 2000 c’è stato un ritorno agli anni 80 e ho ripreso a lavorare. Ho fatto due o tre album orientati sull’elettronica, e alla fine sono soddisfatto”.
Ha sempre rifiutato di fare reality.
"La dignità è indispensabile. Io volevo fare il chitarrista rock, ma anche nel pop ho trovato sincerità, senza troppi compromessi: ascolto le mie cose senza vergognarmi. Non posso pensare di vedermi in tv mentre litigo per un pezzo di pane con una soubrette. Credo che un artista debba fare altro. Sarebbero stato soldi facili, ma per me era giusto così”.
Sanremo: mai tentato?
"Mi era sempre piaciuta l’idea del festival della canzone italiana. Poi è diventato un fenomeno tv, le scelte si fanno in base alla visibilità e ai loro numeri. Arrivano artisti che non ho mai sentito prima che vengono nominati big: sono cambiate le regole, adesso è il festival della visibilità. Non ho mai guardato un Sanremo per intero, molte cose non le capisco ma è un mio limite. Confesso di aver provato un paio di volte, confidando solo sulla canzone, una volta con Morandi, uno che stimo, e una con Baglioni. Morandi mi rispose gentilmente dicendo che non rientravo nei parametri, Baglioni non mi ha mai risposto. Chissà, magari non andrò mai”.
Adesso che progetti ha?
"A parte il borgo in cui vivo che mi risucchia fondi e risorse fisiche, sto scrivendo materiale nuovo, sempre ammesso che ci sia un mercato per queste cose. Concerti ne faccio tanti, ho fatto 12 album e alla fine può andare bene così”.
E lo smoking?
“Lo uso solo a Capodanno”.