Sette, 19 dicembre 2025
Intervista a Riccardo Cocciante
Riccardo Cocciante ritorna in scena con la sua opera Notre Dame de Paris, prodotta da Clemente Zard, amministratore delegato di Vivo Concerti, che ha preso il testimone da suo padre David, storico impresario musicale degli anni d’oro del pop e della canzone d’autore. L’opera (a Milano dal 26 febbraio del prossimo anno, ndr) è stata tradotta in nove lingue e ha avuto, in 20 Paesi, più di tredici milioni di spettatori. Cocciante ha attraversato decenni di musica italiana lasciando un segno nella memoria di tutti. Un cantante italiano venuto alla luce in Vietnam.
Come si fa a chiamarsi Cocciante e a nascere a Saigon a metà degli anni Quaranta?
«Mio padre lavorava alle poste in Abruzzo, ma quando è arrivato Mussolini decide di andarsene. Prima va a lavorare come manovale in Somalia, poi sente parlare dell’Indocina francese come di una terra piena di promesse. E allora parte e sbarca in Vietnam. Lì resta stupito dalla violenza dei monsoni e dalle conseguenze che provocano. Si mette a studiare – ormai era ingegnere – il modo di poter proteggere i ponti e il territorio. Mia madre era di una nobile famiglia francese che però nell’Ottocento, vista la mala parata in patria, si rifugia nelle isole Reunion dove fanno decadere i titoli nobiliari dal cognome. Anche la sua famiglia viene attratta dal sogno indocinese e arrivano a Saigon. Lei diventa istitutrice nella scuola francese. Loro due si incontrano, un abruzzese e una francese, e nasco io. Che buffa è la vita. Senza quei viaggi e quei sogni asiatici, non ci sarebbe stata Margherita».
Come lo ricorda il Vietnam dei primi anni Cinquanta?
«La luminosità, la luce particolare, gli odori e i colori. Il caldo, la sensazione di un’estate permanente spezzata da quei terremoti naturali che sono i monsoni. Bellezza e fragilità, insieme. Io da bambino conoscevo solo il francese. Mio padre, come facevano gli emigranti di allora, non mi parlava in italiano».
Quale è stato il suo primo contatto con la musica?
«Mia zia, che suonava delle arie d’opera al piano. Mi spingeva a cantarle ma io ero, e sono rimasto tutta la vita, un timido, e allora mi nascondevo sotto il pianoforte. La mia voce si ascoltava da lì».
Quale musica ascoltava in Vietnam?
«L’opera, i miei erano melomani. E poi la canzone francese. Brel, Bécaud, Aznavour. Mi piaceva e mi piace il loro modo di cantare, di gridare la grinta delle parole. Fino a quando sono venuto in Italia non conoscevo la canzone del nostro Paese che in quel momento stava profondamente cambiando».
Lei arriva in Italia nel 1957. Mi racconta la sua prima impressione?
«A un certo punto per i francesi in Vietnam l’aria era diventata irrespirabile, meglio andar via. La terra delle promesse si era fatta minacciosa. Allora mio padre caricò tutto e sbarcammo a Marsiglia. Da lì partimmo per un interminabile viaggio in auto. Papà aveva affittato una Ford Versailles nella quale affollammo i bagagli e l’intera famiglia, non so come ci entrassimo. Ma erano tempi in cui gli spazi si dilatavano, pensi che col mio primo gruppo viaggiavamo nella vecchia 500, che oggi sembra un bonsai, in quattro e con gli strumenti. Ci accontentavamo, allora».
Torniamo al viaggio…
«Arriviamo, dopo un numero infinito di tappe e di guasti meccanici, a Rocca di Mezzo, un paesino interno dell’Abruzzo. Ci aspettava tutta la comunità. Erano stupiti, dei francesi su una macchina americana. Io mi trovai, a 11 anni, a passare da Saigon a Rocca di Mezzo. Migrante in una terra di emigranti. I ragazzini mi sfidavano a calcio. Ma io non sapevo neanche cosa fosse. Ero inservibile, per cui pensavano fossi un marziano».
E Roma?
«Mi sembrò fredda, grigia. Il che non è. Ma avevo negli occhi il caleidoscopio di tinte delle estati di Saigon e tutto mi sembrava plumbeo, uniforme. Andammo ad abitare in via Fezzan, nel quartiere africano. Io trascorrevo ore davanti alla televisione ed ero appassionato di tutte le trasmissioni in cui c’era della musica da ascoltare. La mattina studiavo allo Chateaubriand, la scuola francese di Roma, e dal pomeriggio cercavo musica alla radio e in tv. Tutto stava cambiando, arrivavano Mina, Celentano, Modugno. Posso dire di aver imparato l’italiano da loro, con loro».
Però poi va a lavorare, giovane.
«La situazione economica familiare, a causa di una truffa subita da papà, era diventata difficile e lui mi chiese di dare una mano. Lo feci con coscienza e responsabilità. Frequentai un corso di studi alberghieri e divenni segretario d’hotel all’albergo Savoia, vicino a via Veneto. Eccole, le luci italiane, i colori di quella strada piena di illuminazione, di vita, di paparazzi, di scandali veri e finta. Era il tempo della Dolce Vita. Che era davvero vita e davvero dolce. Io la vedevo sfilare, ma da dietro la scrivania di un albergo».
Come arriva dall’hotel Savoia di via Veneto alla mitica Rca sulla Tiburtina?
«Frequentavo un circolo di studenti stranieri, mi confortava. Lì incontrai un ragazzo vietnamita, figlio di un diplomatico di quel Paese che è tornato più volte nella mia vita. Aveva un gruppo musicale, The Nations, e mi chiese, saputo della mia passione, di farne parte. Io forse sapevo cantare, di certo non sapevo suonare. E quindi non avevo uno strumento mio. Lui mi prestò i soldi per acquistare una tastiera sulla quale, da autodidatta, ho cominciato la mia formazione».
E arriva la Rca.
«Quel ragazzo vietnamita, si chiamava Van, era molto intraprendente. Aveva saputo che la Rca, un giorno a settimana, apriva le porte agli esordienti. Noi ci presentammo, c’era una marea di gente. I tecnici e gli esaminatori, a metà giornata, erano sfiniti e non vedevano l’ora di andare a casa. Noi cominciammo a suonare e cantare e vedemmo le loro teste che si alzavano e si giravano verso di noi: era come se li avessimo risvegliati. Ma successe una cosa imbarazzante. La Rca voleva fare il contratto a me ma non al gruppo. Io trovai una soluzione: avrei firmato, ma mi impegnavo a fare le serate con The Nations. Così fu, tutti stipati nella 500».
Non tutto fila liscio però…
«Macchè. Una doccia fredda micidiale. Mi mandano, come prima esibizione importante, al Cantastampa. Quando torno mi dicono che non gli interesso più e che il contratto potevo considerarlo carta straccia. Poi per fortuna entra in scena Marco Luberti, che lavorava con una etichetta satellite della Rca, la Delta. Lui mi sostiene e allora mi chiedono un disco. In 15 giorni e 15 notti sforniamo Mu, un album concept che fu accolto bene dalla critica. Mi imbattei poi in un produttore, un tipo da spiaggia, che voleva cambiare il mio modo di cantare. Per fortuna dissi di no».
Nel settembre del 1973, nei giorni del colpo di stato in Cile, esce l’album Poesia con la title track che durerà nel tempo.
«Sì ma al primo successo l’ha portata Patty Pravo che volle inciderla. Il vero boom per me esplode l’anno dopo con l’album Anima che contiene la mia canzone preferita, tra quelle che ho scritto, Quando finisce un amore e soprattutto Bella senz’anima che all’inizio fu bocciata dalla Rca».
È del 1974 anche lo spettacolo al Teatro dei Satiri di Roma.
«Sì ero con Antonello Venditti e Francesco De Gregori che avevano già dei pezzi di grande successo. Venne mezzo mondo a vederci, il teatro era sempre pieno. C’erano Dalla, Baglioni e perfino Ornella Vanoni. Anzi le dirò, ricordandola con affetto, che Ornella voleva cantare Bella senz’anima. Ennio Melis, il boss della Rca, uno che di musica capiva, mi ascoltò e mi propose di reincidere quel brano».
E qui arriva un altro Ennio.
«Sì, Ennio Morricone, che arrangiò il brano. Io l’ho sempre amato. Lui non scriveva la musica come gli altri. All’inizio gli dava un po’ fastidio il mio modo di cantare così aspro, così difficile. Poi ci siamo capiti. Ennio ha messo a quel brano un vestito emotivamente bellissimo. Tutto, in Morricone, è unico. E, quando mi chiedono chi sia al mondo l’autore di colonne sonore che preferisco, io rispondo che non c’è nessuno come lui».
Lei si sentiva parte di quella stagione meravigliosa di cantautori italiani?
«Mi hanno spesso associato al filone romano, in quel periodo il più prolifico. C’era stato quello genovese di Paoli, Tenco, Bindi e quello milanese di Jannacci e Gaber. Roma, all’avvio degli anni Settanta diventa la capitale di una musica d’autore fortemente impregnata di valori politici e sociali. Io ero un po’ di lato. Non sono mai andato al Folkstudio e non sono mai stato un cantante che ha avuto il desiderio o l’ambizione di trasmettere messaggi politici. Stavo per conto mio».
Questo le è pesato?
«Sinceramente sì. Non venivo mai nominato tra i cantanti più importanti. Ci ho sofferto. I critici preferivano gli autori che avevano una dimensione da intellettuale. Io non lo ero. Ma al pubblico, per fortuna, interessava la qualità della mia musica».
Bella senz’anima ebbe un percorso pubblico travagliato. Fu, insieme, censurata dalla Rai e criticata dai primi movimenti femministi.
«La critica dei movimenti delle donne rientrò presto. La Rai non sopportava che fosse trasmessa una canzone in cui si diceva “E quando a letto lui…”. Ma le canzoni hanno un loro tragitto, che spesso l’autore neanche prevede o immagina. Hanno una loro libertà, una loro anima. Per esempio, Bella senz’anima imprevedibilmente diventò una canzone della rivolta in Cile, in Spagna, in Argentina contro le dittature dell’epoca».
Ma lei, e sono d’accordo, preferisce Quando finisce un amore.
«Sì, forse perché la sento più vicina alla mia formazione, alla canzone francese, più recitativa. Bella senz’anima è più italiana, Quando finisce un amore più transalpina. Le mie due identità fondamentali».
L’identità non è forse il vero tema di Notre Dame de Paris che tornerà in scena a più di venti anni dal suo esordio, nel 2002, al Gran Teatro di Roma?
«Sono molto contento di questo ritorno. Notre Dame de Paris è un’opera popolare di canzoni che possono essere, lo sono state, delle hit. Non è un musical tradizionale, ma un racconto che procede per mezzo di musica popolare e di una struttura scenica potente e sofisticata. Notre Dame è un’esaltazione della bellezza della differenza, del rifiuto della discriminazione fondata sul corpo, il colore della pelle, la classe sociale. Dal fisico di Quasimodo all’identità gitana di Esmeralda, ai sans papier della Corte dei Miracoli abbiamo, con Luc Plamandon per la versione francese e con Pasquale Panella per quella italiana, sempre cercato di mandare un messaggio forte di rifiuto di ogni razzismo e di ogni discriminazione. Quando, tanti anni fa, abbiamo scritto quei testi non pensavamo che, purtroppo, il tema della accettazione delle differenze sarebbe riapparso così tristemente attuale. E che si sarebbe di nuovo tornati a dover spiegare quanto abbiamo bisogno degli immigrati nelle nostre società moderne, perchè rinnovano le nostre identità e il nostro pensiero. Il nuovo razzismo è davvero scioccante».
Un’ultima domanda: mi è sempre sembrato che nel suo modo di cantare ci fossero, insieme, rabbia e malinconia.
«È vero, la mia è una sofferenza malinconica, una sorta di disagio del vivere. Il mio fisico non mi ha mai consentito di essere un cantante che rispondesse agli stereotipi considerati di norma. All’inizio pensavo che questo problema potesse rappresentare un handicap, per me. Ma ho lottato per la mia vita. Ho lottato sempre. E non smetto».