Corriere della Sera, 19 dicembre 2025
Il nome basco e la guerriglia No Tav. Storia (e processi) del centro sociale
All’alba, quando gli agenti hanno sfondato le porte dell’Askatasuna, all’interno del centro sociale più famoso di Torino c’erano studenti universitari. Nella scuola occupata, che il Comune voleva «legalizzare» trasformandola in un bene comune, nonostante in Procura venisse additata come l’epicentro della «capitale dell’eversione», si è realizzato un ricorso storico inaspettato. «C’ero nel 1996, quando occupammo lo stabile al termine di un corteo antiproibizionista, in contrasto con quelli della “Pantera”, che si erano accordati con il Comune per trasformarlo in uno studentato pubblico, senza immaginare i 29 anni di lotte e iniziative che sarebbero seguiti», racconta Jasch Ninni, restauratore e consigliere di Vanchiglia, il quartiere che ieri si è svegliato in tenuta da guerra per lo sgombero.
Mentre i muratori chiudevano gli accessi, tra gli autonomi scesi in strada non c’era aria di resa, in linea con uno slogan storico: «Non vi sappiamo dire come finirà, ma vi facciamo vedere come comincia». Askatasuna affonda le sue radici nella Torino post-industriale. La prima occupazione è ai Murazzi, dove si coltiva il mito delle battaglie dell’Eta. Se oggi la colonna sonora è il trapper contro la polizia Baby Gang, allora era Sarri Sarri, l’inno irrequieto di una generazione di ribelli ispirato al poeta-militante Joseba Sarrionandia. Si gridava «Euskadi Ta Askatasuna»: da lì il nome, che vuol dire libertà.
«Fa comodo ricondurre tutto sempre a noi. I militanti di un tempo non si vedono più e oggi sono soprattutto universitari. Non c’è nessun “sistema Aska”: semmai esiste il metodo autonomo di stare nei centri sociali, nel quartiere, tra giovani e proletari», raccontava al Corriere Torino Giorgio Rossetto, uno dei fondatori, in occasione dello scorso 8 dicembre, nel ventennale della «battaglia di Venaus», simbolo del movimento No Tav, «la regina di tutte le lotte» perché fonde ambientalismo e mito della resistenza popolare.
Rossetto c’era anche nel 1999, l’anno del primo tentativo di sgombero. Durante il Primo maggio, criticando la sinistra e i bombardamenti su Belgrado, gli autonomi provano a prendere la testa della Festa dei lavoratori. La risposta delle forze dell’ordine è durissima ed è raccontata nel documentario Rosso Askatasuna, con i militanti sul tetto per impedire la liberazione dell’ex scuola comunale. Da allora il centro sociale è sempre in prima linea nelle manifestazioni antifasciste e nei picchetti contro gli sfratti, con uno sguardo rivolto alle resistenze internazionali in Kurdistan e in Palestina.
Il G8 di Genova è lo spartiacque. Le «tute bianche» del Leoncavallo o del Pedro di Padova scelgono la disobbedienza, mentre quelli dell’Askatasuna coltivano il mito della lotta anche nel nuovo secolo. Una lotta che si consuma anche nei tribunali, tra condanne e assoluzioni. Come nel marzo 2025, quando il giudice respinge la tesi che Askatasuna sia un’organizzazione criminale strutturata. La sentenza viene accolta tra grida e applausi e con una rivendicazione: «Siamo un’associazione. Ma a resistere». Fino a ieri, l’ultima notte e l’addio al progetto con il Comune. Sarà la vera fine? Chissà, anche perché un ex militante racconta: «La violenza non è mai stata un fine né un’estetica, ma una pratica legata a obiettivi politici. Sanzionare un palazzo del potere o una redazione favorisce media consapevoli, che li trasformeranno in puro spettacolo. Una mediatizzazione cercata che diventa parte di quel conflitto sociale che non si fermerà mai».