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 2025  dicembre 18 Giovedì calendario

Quando si ammala la Germania

Dopo la pandemia l’economia tedesca si è fermata. Un Pil in caduta nel 2024 e, secondo le proiezioni, in lieve crescita nel ’25 e ’26, come probabile conseguenza di un forte aumento della spesa pubblica. Alcune delle principali imprese del Paese, come Volkswagen, Thyssenkrupp e Basf, annunciano licenziamenti e chiusure di impianti.
Questi dati suscitano più di una preoccupazione. La Germania è stata a lungo la locomotiva del nostro continente, contribuendo alla crescita delle economie dei Paesi vicini (tra cui l’Italia e le economie dell’Europa orientale) mediante lo scambio di beni intermedi e allungando le catene del valore. Ma la questione non è solo economica: i processi di deindustrializzazione alimentano la crescita dei partiti estremisti di estrema destra (Alternative für Deutschland, ovvero Afd, ndr) e destabilizzano gli equilibri politici europei.
La domanda che si pongono gli analisti è se si tratta di un declino strutturale o un fenomeno temporaneo. La Federazione delle imprese tedesche sembra propendere per la prima ipotesi e individua nei costi dell’energia, nella concorrenza cinese, nella regolazione e nella burocrazia le cause principali, da cui deriverebbe una progressiva deindustrializzazione di un modello di specializzazione produttiva fortemente concentrata sul manifatturiero. L’analisi degli industriali tedeschi non è molto diversa da quella della Confindustria italiana e coglie elementi importanti di una transizione che sarà certamente dolorosa per le economie che hanno resistito più di altre alle grandi trasformazioni economiche avvenute negli altri paesi avanzati dell’Occidente (principalmente i Paesi anglosassoni), dove la quota di occupazione nel terziario è aumentata più rapidamente.
Ma, forse, vale la pena correggere in parte la rappresentazione degli industriali tedeschi o fornire qualche elemento aggiuntivo meno catastrofico. Per prima cosa, la perdita di occupazione nel manifatturiero in Germania non è una notizia di oggi, ma è un processo che va avanti da più di trent’anni senza impatti particolarmente negativi sull’economia. L’occupazione nel manifatturiero è passata dal 40 al 27% dal 1990 a oggi come conseguenza dell’automazione e della delocalizzazione. Queste scelte hanno consentito di contenere i costi e rendere competitivi i prodotti esportati senza diminuire la quota di Pil che proviene dall’industria tradizionale. In particolare, dall’inizio di questo secolo e fino al 2018, le imprese automobilistiche tedesche hanno prodotto enormi ricavi dalle esportazioni verso Usa e Cina.
Ora, la Cina ha compiuto un salto tecnologico che le consente di esportare automobili elettriche di qualità, mentre i produttori europei hanno scelto di rimandare l’abbandono del motore termico e, con ciò, la possibilità di conservare le quote di mercato nei paesi asiatici e in Sud America. Per ragioni simili sono a forte rischio anche esportazioni di vetture verso gli Stati Uniti, dove Tesla ha fatto enormi investimenti in ricerca e sviluppo e ha offerto ai consumatori un prodotto nuovo con tecnologie molto avanzate.
La domanda naturale, di fronte a questo scenario è se, tra le cause delle difficoltà dei produttori tedeschi, non vi sia anche il fatto di non aver rischiato abbastanza e non aver visto con adeguato anticipo la necessità di investire sulle innovazioni di prodotto e su settori ad elevato contenuto tecnologico. In questo caso, gli industriali tedeschi dovrebbero fare un po’ di autocritica.
Un altro fattore che contribuisce a spiegare le difficoltà della Germania e delle economie europee è la transizione demografica, cioè la perdita di forza lavoro causata dal calo delle nascite e dal pensionamento di una grande massa di lavoratori esperti. Un processo che, per la verità, colpisce molti Paesi avanzati e che può essere contenuto solo da una politica di accoglienza di lavoratori stranieri qualificati.
L’ultimo fattore da considerare è il declino del capitale infrastrutturale del Paese dovuto a decenni di austerità fiscale e, forse, alle distorsioni determinate da un sistema federale, in cui i poteri sono troppo decentralizzati. Questi problemi sono certamente seri, ma occorre ricordare che la Germania ha ancora un’economia molto solida e un sistema di relazioni industriali efficiente.
La cooperazione tra le parti sociali aveva avuto buoni frutti con il governo Schröder nel 2005 (le riforme Hartz) e potrebbe funzionare anche nel futuro. Una visione più ottimistica rispetto a quella paventata dalla Confindustria tedesca è che la deindustrializzazione non sia altro che un’evoluzione del sistema industriale dai settori tradizionali verso settori più avanzati e meno esposti alla concorrenza internazionale, come la tecnologia farmaceutica, l’aerospazio, la difesa e i servizi avanzati. La Germania e l’Europa hanno tutte le carte per sfidare la Cina e gli Stati Uniti per il primato in questi settori senza ricorrere al protezionismo.