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 2025  dicembre 18 Giovedì calendario

Ma quanto è antico il nuovo ordine mondiale

Si parla spesso di nuovo ordine mondiale ma meno spesso si nota che il processo di trasformazione geopolitica al quale stiamo assistendo è in realtà il ritorno a un vecchio ordine. Come in un antico codice palinsesto, vediamo riemergere, se affiliamo lo sguardo, la scrittura di un ordine passato. Qualcuno si crede zar, e in quel passato trova motivo di credersi tale. Qualcun altro si considera sultano, e nella grafia semicancellata di un precedente strato di storia trova ragione di considerarsi tale. Questo ai margini dell’Europa, in potenze che forse culturalmente le appartenevano, ma politicamente ne sono state escluse.
L’Europa attuale, da parte sua, agisce marciando unita, ma lascia via via affiorare i solchi delle antiche divisioni tra stati: la Gran Bretagna della Brexit, la Germania e la Francia dei riarmi, l’Ungheria, la Polonia mostrano i segni di un risveglio nazionalistico. O quanto meno, in controluce, fanno riemergere quelli dell’ordine antico. E se l’America torna ad allontanarsi alla vista, si avvicinano Paesi che appartengono a un ordine più antico ancora: la Cina, l’India, il Golfo.
Guardandolo a volo d’uccello, il nuovo ordine somiglia a quello che Fernand Braudel, considerando la civiltà mediterranea dell’inizio dell’età moderna nei suoi rapporti col sistema mondiale, chiamava “Mediterraneo maggiore”: una «zona spaziodinamica, che rievoca un campo di forze magnetico o elettrico» e che si estende fino al Mar Rosso, al Golfo Persico, all’Oceano Indiano e oltre. Nel nuovo ordine mondiale, con l’eclissi dell’estremo Occidente, il baricentro si sposta verso Est. Riaffiorano le zone di irradiazione tracciate dalle antiche rotte verso un Oriente più o meno estremo, spesso commercialmente egemone, comunque primo interlocutore finanziario.
Dietro ognuna delle potenze dominanti, piccole e grandi, di questo antico-nuovo assetto multipolare indubbiamente più instabile e complesso dell’ordine unipolare post-guerra fredda, si intravede un archetipo di natura non psicologica, ma storica. Quasi tutti si portano dietro un passato imperiale. Francese o britannico, prussiano o austroungarico, ottomano o russo, arabo, indiano, cinese, chi di loro non ha avuto un impero? È come se in queste nazioni operasse, non per magia ma per necessità storica, quello che Guglielmo Ferrero chiamava genius loci: una sorta di karma geopolitico, capace di determinarne strategie, ideologie, ambizioni, azioni.
Per legittimare il proprio genio, per ribadire le origini ideali della propria storia, le grandi potenze del nuovo-antico ordine mondiale investono ampiamente nel soft power: la capacità di attrarre, persuadere, influenzare usando strumenti immateriali. Insieme alle merci, alla diplomazia, alle relazioni internazionali, ognuna di loro esporta una rappresentazione di sé non necessariamente propagandistica, strutturata sulle proprie premesse storiche, ideologiche e anche culturali. Del resto le vie di scambio commerciale hanno veicolato sempre anche beni culturali, fossero storie, canti, forme artistiche e musicali o obbedienze religiose, concezioni scientifiche, prospettive politiche. In questo teatro di ombre che riaffiorano dalle città proibite orientali e passando dalle corti degli sceicchi arrivano fino alla grandeur di Versailles e all’impero coloniale dove non tramontava il sole dell’estremo Occidente, dove è nascosto il genius loci dell’Italia?
Completamente scissa, per sua fortuna, da un passato imperiale romano divelto dall’imperium ecclesiastico dei papi; politicamente frantumata, per sua disgrazia, da quindici secoli di dominazioni straniere; protesa a fare da testa di ponte e recentemente da portaerei di terraferma in una guerra così fredda da somigliare, rispetto a quelle di ora, a una pace, la penisola italiana sta cercando un suo genio, un suo ruolo. Che non può essere nazionalista e forse neanche nazionale, perché è diventata nazione solo di recente e a prevalere in passato è se mai stata l’intraprendenza locale dei comuni e delle signorie, dei liberi, o quasi, potentati marinari. Come le antiche repubbliche mercantili dei pisani, dei fiorentini, degli anconetani, degli amalfitani, ma soprattutto dei genovesi e dei veneziani, da cui ebbe origine quello che Braudel, per citarlo di nuovo, ha chiamato il protocapitalismo dei traffici.
Venezia e Genova, muovendo via mare l’una dal lato di nordest, l’altra da quello di nordovest della penisola, erano state capaci di assumere un ruolo rilevante nel gioco degli imperi di quell’età cerniera alla quale, per capire il suo e nostro tempo, si rifaceva la “storia delle tre durate” del Mediterraneo di Braudel. Un’età in cui l’America ancora non era stata scoperta ma il capitalismo sì, a Venezia come a Genova, dove le banche e un modello economico che combinava impresa di Stato e iniziativa privata, sistemi di prestito e di investimento, strutture imprenditoriali e agenzie internazionali proiettavano l’economia di un nascente e spesso già spietato potere del capitale verso le vie della seta disegnate nei libri di Peter Frankopan o verso la via dell’oro descritta nell’ultimo di William Dalrymple.
La griglia dei traffici delle repubbliche italiane era tesa come un’immensa rete da pesca tra il Mediterraneo e il Mar Nero. E se il Mar Nero era al cuore di tutte le principali rotte commerciali che congiungevano Europa e Asia Centrale, Russia e Medio Oriente, al cuore del Mar Nero, sua stanza dei bottoni, stava la penisola di Crimea: la cosiddetta Gazaria, la porta della “terra dei cazari”, all’epoca presidiata da Genova la Superba.
Le vie commerciali della repubblica genovese del nordovest e delle sue basi operative nel Levante, le “maone”, associazioni armatoriali e finanziarie sotto la garanzia dello Stato ma con amministrazioni autonome, segnavano e sorvegliavano le rotte delle carovane. Quelle dello “Stato da mar” veneziano del nordest sfruttavano una fisionomia geostorica che fin dai tempi del porto fluviale di Aquileia guidava i traffici da Occidente a Oriente e ritorno.
Con l’America che si allontana e le vie d’acqua che mutano per il riscaldamento climatico aprendo nuovi passaggi a nordovest, il genius loci dell’Italia è forse costretto a ridestarsi nei grandi porti del proprio nordovest e del proprio nordest. Genova, «questa straordinaria città divoratrice di mondo» (di nuovo Braudel), da sempre capace di giocare su due tavoli, orientale e occidentale. Non più Venezia in sé, la Serenissima, ormai lucrosamente sprofondata nel carnevale globale del turismo di massa, ma forse il grande hub cosmopolita di Trieste proteso sull’antico bacino adriatico, da sempre fondamentale per il commercio dei romani tra il nord Europa, il Medio Oriente e l’Africa e in genere per la comunicazione tra mondi.
Forse è questa l’autorappresentazione che manca all’Italia: né imperi né eserciti né frontiere, ma una plurisecolare civiltà dello scambio dove, nelle navi container che hanno sostituito le antiche galee, insieme ai commerci si trasmette un’idea di sé che per affrontare il futuro guarda, come sempre si dovrebbe, al passato.