Corriere della Sera, 18 dicembre 2025
Così l’Asia tradisce i suoi figli
Questo doveva essere il Secolo Asiatico. Ma nel 2025 in quella parte del mondo sono divampate rivolte, soprattutto giovanili. La Generazione Z è scesa in piazza in Indonesia, Nepal, Filippine, protestando contro la corruzione, la censura, le promesse tradite, la mancanza di opportunità. Un caso a parte è la seconda superpotenza mondiale, la Cina. Lì il tasso di disoccupazione giovanile supera il 20% nelle statistiche ufficiali, molti lo stimano ben più alto.
È a cuto tra i neolaureati, che Xi Jinping esorta a «masticare amarezza», ammettendo che devono accettare mansioni molto al di sotto dei loro titoli di studio. Nel 1989 le aspirazioni frustrate portarono i ventenni di allora a occupare Piazza Tienanmen per chiedere diritti e libertà. Anche oggi ci sarebbero le condizioni per l’esplosione di una rivolta. L’Asia Society Policy Institute nel suo rapporto «China 2026» evidenzia un cambio di mentalità. Fino al 2014 le indagini d’opinione effettuate dallo stesso regime di Pechino indicavano che le crescenti diseguaglianze sociali erano viste come «la sanzione di fallimenti dei singoli individui in una Cina in ascesa». Un decennio dopo le medesime indagini ufficiali rivelano che una maggioranza dei cinesi attribuisce le diseguaglianze a «difetti strutturali, mancanza di opportunità, corruzione e favoritismi, nonché un’economia stagnante». Prima, se un giovane laureato non trovava lavoro, dava la colpa a sé stesso, secondo un’etica meritocratica e confuciana. Oggi lo stesso giovane disoccupato dà la colpa al sistema; idem i suoi genitori, che hanno speso una fortuna per la sua istruzione e se lo ritrovano «sdraiato» a casa. Ma dare la colpa al sistema e scendere in piazza non sono la stessa cosa. Insieme al pessimismo di massa che trapela sui social, c’è chi opta per l’opportunismo. Gli iscritti al Partito comunista hanno superato per la prima volta la soglia dei 100 milioni, il 7% della popolazione. Più che per passione ideologica il Partito attira come ufficio di collocamento. In parallelo aumentano le candidature ai concorsi per la burocrazia statale: 3,4 milioni di iscritti agli esami nel 2025. È rassicurante per Xi Jinping: la sua Generazione Z non protesta come quella indonesiana, filippina, nepalese, almeno una parte preferisce mettersi in coda per un impiego di Stato, con basso salario ma posto fisso e sicurezza.
Questo però dà un’immagine diversa da quella di una Cina lanciata nella gara per il primato dell’intelligenza artificiale e di tutte le tecnologie avanzate. L’Occidente vede la punta dell’iceberg, i settori modernissimi, i capitalisti innovativi. La grande Cina contiene altre storie meno esaltanti: crescita in calo, investimenti in caduta, consumi depressi dal pessimismo. Anche la soglia simbolica del Trilione – il record storico di mille miliardi di dollari nell’attivo commerciale col resto del mondo – è un sintomo di debolezza più che di forza. Con il mercato americano che si sta chiudendo, la Cina soffre di sovraccapacità industriale e ha un disperato bisogno di smaltire le sue eccedenze. L’impatto distruttivo di questo tsunami di esportazioni provoca protezionismi a catena. Il Messico alza dazi del 50% contro il made in China, ben più alti di quelli di Trump. Macron in visita da Xi gli dice: «Stai uccidendo i tuoi clienti». La Confindustria tedesca che era stata la più potente lobby filo-cinese, chiede robuste barriere al cancelliere Merz. Perfino l’orientamento europeo di rinviare l’abbandono dei motori a combustione si spiega così: la scadenza del 2035 era una condanna a morte per l’industria Ue e una resa incondizionata all’invasione cinese, con la dipendenza che ne consegue.
La revisione di scenario sul Secolo Asiatico è in corso da tempo. È tra il 2000 e il 2010 che il sorpasso cinese sembra certo: in quel decennio il Pil della Repubblica Popolare misurato in dollari balza dal 12% al 41% del Pil americano. È un salto spettacolare, è comprensibile che in quel periodo si tenda a estrapolarlo verso il futuro. Nello stesso arco di tempo il Pil dell’India e quello del Brasile, misurati come una percentuale di quello americano, raddoppiano. La Russia fa perfino meglio: il suo Pil quadruplica, sempre in proporzione a quello degli Stati Uniti. Ma già nel decennio successivo il trend cambia, per molti paesi anche se non ancora per tutti. Il Pil del Brasile misurato come quota del Pil americano, nel periodo 2010-2020 si dimezza. La Russia perde un terzo del suo peso economico. Col decennio attuale, cioè a partire dal 2020, il rovesciamento si rafforza. Solo l’India continua a tenere il passo con gli Stati Uniti. Il Pil della Cina retrocede dal 70% al 64% rispetto a quello americano e il divario tra le due superpotenze torna così ad allargarsi. Se si uniscono fra loro le economie di tutta l’Africa, di tutta l’America latina, di tutto il Sud-Est asiatico, il loro peso complessivo cala dal 90% al 70% del Pil americano. L’ascesa del Resto del Mondo ha intrapreso una marcia a ritroso. Le cause sono tante ma nessuna di queste crisi ha implicazioni così rilevanti come quella cinese. Xi sembra imperturbabile. L’ultima rivolta giovanile la schiacciò a Hong Kong nel 2019-2020. All’età di 73 anni e con due genitori ultra-longevi, si dice che ambisca a un quarto mandato che lo consacrerebbe imperatore fino alla soglia degli ottanta. Un record; ma non una credenziale per aiutarlo a capire la psicologia ferita dei suoi giovani.