Corriere della Sera, 18 dicembre 2025
Quelle ferite e la città che riparte
Tagliarono le catene, quei pazzi. Non si è mai capito bene chi diede l’ordine di farlo a metà del ’900, pensando che disturbassero esteticamente la vista e fossero inutili alla solidità dell’antico maniero. Certo è che il Forte Spagnolo dell’Aquila che aveva resistito addirittura al disastroso terremoto del 1703 e poi a una scriteriata sopraelevazione ottocentesca, non resse alla terrificante botta sismica delle 3.32 di notte del 6 aprile 2009. Senza quelle grandi catene d’acciaio rimosse col consenso della soprintendenza, che lì aveva sede, buona parte delle mura collassò. Eppure era così robusto, quel castello, che il ponte d’accesso, che secondo le perizie fu investito dal crollo di «tonnellate e tonnellate di enormi massi, resistette praticamente senza grossi danni».
Prova provata che aveva ragione Francesco Guicciardini quando nei suoi Ricordi politici e civili, usciti proprio negli anni di edificazione del forte aquilano, scrisse che certo, anche le città, come gli uomini, sono mortali ma «essendo una città corpo gagliardo o di grande resistenzia, bisogna bene che la violenzia sia estraordinaria ed impetuosissima a atterrarla. Sono adunche gli errori di chi governa quasi sempre causa delle ruine delle città; e se una città si governassi sempre bene, saria possibile che la fussi perpetua, o almanco arebbe vita piú lunga sanza comparazione di quello che non ha».
Aveva ragione. E nulla lo dimostra meglio dei gravissimi errori dovuti a sciatterie, superficialità, approssimazioni che a metà dello scorso secolo concorsero in molti casi a causare pochi decenni dopo, nel 2009, nel capoluogo abruzzese e dintorni, 309 vittime, oltre 1.600 feriti, circa 80mila sfollati e danni gravissimi al tessuto urbano, economico, sociale di tutta l’area. Basti ricordare il crollo della Casa dello Studente: «Un giorno il povero Francesco, il custode rimasto poi sotto le macerie, venne a bussare a tutte le porte delle camere, dicendoci di scendere subito, di abbandonare la residenza» avrebbe ricordato uno dei sopravvissuti, «dopo il sopralluogo, l’architetto ci invitò a rientrare, e nella sala studi di piano terra ci spiegò che non c’erano rischi, che la struttura era antisismica». Quando crollò restarono sotto in otto. Il palazzo, avrebbe precisato la Cassazione nel 2015, era «stato in tutto e per tutto modificato, rimanendo tuttavia identico all’originale soltanto per ciò che attiene alle sue componenti statiche, rispetto alle quali né i tre progettisti, né il collaudatore si (erano) minimamente posti il problema se tutto quello che era stato realizzato, con le radicali e totali modificazioni conseguitene, fosse ancora compatibile con quanto era stato progettato e valutato quasi quaranta anni prima e per tutt’altra destinazione».
Ancora più sconcertante fu il caso del condominio di Via Campo di Fossa sotto le cui macerie morirono in 24. Tre giorni dopo il crollo il dirigente generale dell’assessorato Territorio e Ambiente spiegava già che era stata una follia costruire lì: «È una zona morfologicamente disgraziata». Era chiamata l’area delle «grotte» perché, sotto, c’erano smisurate spelonche riempite nei secoli con le rovine del terremoto del 1703 e altri rottami successivi. Eppure l’autorizzazione pretesa nel ’63 dal genio civile era arrivata in 13 giorni: un lampo. Con aggravanti successive. Come la costruzione, secondo le denunce, di «pilastri da 30 cm per 60 invece che 80 per 80». Una vergogna. Resa ancora più amara, per le vittime, da una sentenza che nel 2022, tredici anni dopo la tragedia, attribuì ai morti un concorso di colpa «costituendo obiettivamente una condotta incauta quella di trattenersi a dormire così privandosi della possibilità di allontanarsi immediatamente dall’edificio al verificarsi della scossa». Testuale. Né il ribaltamento del verdetto, pochi mesi fa, ha sanato l’offesa alle vittime: è incredibile ma sulle spese giudiziarie la questione, quasi 17 anni dopo, è tuttora in sospeso.
Viva il museo che sabato riapre, viva L’Aquila che riparte. Certe ferite, però, sono ancora aperte.