la Repubblica, 17 dicembre 2025
La vita agra di Spinoza ci ricorda cosa rischia chi si oppone al potere
Domenica scorsa (14 dicembre, ndr) Massimo Recalcati ha scritto su queste pagine un bell’intervento a proposito dell’Etica di Baruch Spinoza. L’Etica è forse il picco del pensiero spinoziano, se è lecito distinguere in un corpus filosofico denso e coerente come quello che ci ha lasciato. Esiste un’altra sua opera di grande importanza. Il titolo è altisonante, il contenuto costituisce in realtà non solo l’esposizione di un’idea ma una guida all’agire quotidiano: Trattato teologico-politico (Tractatus theologico-politicus); è tra l’altro l’unica sua opera pubblicata, 1670, mentre l’autore era ancora in vita.
Spinoza non aveva nemmeno quarant’anni ma nella Amsterdam dei suoi giorni aveva già intercettato quei venti di libertà che di lì a pochi decenni avrebbero preso forma compiuta nelle dottrine dell’Illuminismo. Nel capitolo XX che conclude l’opera, afferma che lo scopo della società politica è liberare gli individui dalla paura garantendo la sicurezza e il diritto all’esistenza. In una libera repubblica, scrive, è lecito pensare liberamente e liberamente manifestare ciò che si è pensato.
C’è poi nell’opera tutta una parte che riguarda le religioni, come il titolo dichiara, di cui riferirò tra poco. Vorrei prima raccontare un curioso episodio che lo riguarda e che ho scoperto leggendo, anni fa, Il problema Spinoza di Irvin D. Yalom, uno psichiatra che esercita a Palo Alto, California, autore di romanzi su grandi filosofi: Nietzsche, Schopenhauer e per l’appunto Spinoza. Per quale ragione e per chi, un uomo mite come Baruch avrebbe potuto essere un problema?
Un giorno Yalom, trovandosi ad Amsterdam, si recò a Rijnsburg (un’ora d’auto) per visitare la casa museo intitolata al filosofo. Rimase deluso dalla povertà della biblioteca, fece qualche domanda e scoprì che, durante l’occupazione nazista, il museo era stato saccheggiato dalle Ss guidate dal Reichsleiter Alfred Rosenberg. Questo sinistro personaggio, uno dei massimi ideologi antisemiti del regime hitleriano, aveva incaricato un giovane ufficiale di razziare le biblioteche redigendo un catalogo (si può immaginare quanto meticoloso) delle opere che contenevano, compresi appunti autografi di opere giovanili. Cercava di venire a capo in questo modo grossolano del problema che lo assillava: come mai Wolfgang Goethe, massimo rappresentante dello spirito germanico, aveva potuto apprezzare in modo esplicito le opere di un ebreo come Spinoza? Il tentativo era rozzo e finì nel nulla, Rosenberg fu uno degli alti esponenti nazisti che vennero impiccati a Norimberga al termine del famoso processo.
Baruch (Benedetto) Spinoza era nato nel 1632 ad Amsterdam in una famiglia di ebrei fuggiti dal Portogallo per scampare ai pogrom. Negli anni giovanili aveva studiato alla scuola rabbinica, in realtà leggendo di tutto mentre aiutava la famiglia servendo al banco nella drogheria di suo padre.
Un giorno erano entrati nella bottega due ebrei che dopo aver comprato qualcosa si erano fermati a chiacchierare. Sembravano curiosi, avevano chiesto con sincero interesse qualche dettaglio a proposito delle sue idee su Dio, sulle Scritture, sull’universo, avevano detto di apprezzare le sue risposte. Baruch era un giovane onesto e mite, quell’atteggiamento accomodante fino all’untuosità non gli aveva fatto sospettare il tranello. Invece proprio di questo si trattava. I due finti clienti erano in realtà spie della sinagoga che, subito dopo il colloquio, erano corsi a riferire alle autorità rabbiniche le sue idee eretiche.
La reazione fu durissima, Baruch si trovò di colpo scagliato in una rovente disputa teologica. Nei suoi confronti venne emesso un cherem, cioè la maledizione che decreta l’espulsione violenta dalla comunità insieme ad alcuni crudeli interdetti: «Che tu sia maledetto di giorno, che sia maledetto di notte; che sia maledetto durante il sonno e durante la veglia, sia maledetto quando entra e sia maledetto quando esce. Voglia l’Eterno accendere contro quest’uomo tutta la sua collera e riversare su di lui tutti i mali menzionati nella Legge (…) Che nessuno lo avvicini a meno di quattro cubiti. Che nessuno viva sotto lo stesso tetto con lui e che nessuno legga i suoi scritti».
Nella Amsterdam di metà Seicento, Spinoza viene cacciato dalla comunità ebraica e bandito. Lascia dunque la città con le sue cose così povere che sua sorella rifiuterà poi l’eredità per non doversi sobbarcare il peso di quella miseria. Comincia un nuovo mestiere, molatore di lenti. Mentre chino sulla mola dà alle lenti la giusta curvatura, un fuoco perfetto, continua a pensare. Il prezzo però è alto, la sua costituzione è fragile anche se la volontà è di ferro, la sottile polvere di cristallo danneggia i suoi polmoni. Sceglie una vita solitaria; pubblica sotto pseudonimo o non pubblica, riflette, il 21 febbraio 1677, a 44 anni, muore all’Aia.
Il suo maggior peccato era stato di ridurre a superstizione l’immagine di un dio antropomorfo, poi di esaminare le Scritture non con l’animo disposto a credere del fedele ma con lo sguardo acuto del filologo. È esattamente ciò che a fine Ottocento farà il pensatore francese Ernest Renan. Dopo gli studi in seminario arriverà a concludere che l’attribuzione del Pentateuco a Mosè è insostenibile, negare che parecchie parti della Genesi abbiano carattere mitico è come obbligarsi a ritenere reali alcuni racconti quali il paradiso terrestre, il frutto proibito, l’arca di Noè.
Spinoza era andato ancora più in là. In una lettera al teologo Henry Oldenburg, suo amico, aveva scritto: «La resurrezione di Cristo dai morti fu in realtà spirituale e manifestata ai suoi soli seguaci, secondo la loro capacità di comprensione». Nel Trattato teologico-politico aveva criticato la credenza eucaristica, immaginare l’assurdo che Dio, sostanza infinita e indivisibile, possa essere materialmente inghiottito ed espulso poi con le feci. Per lui, Dio non è un ente personale separato dal mondo, ma Deus sive Natura, la totalità eterna e necessaria di tutto ciò che esiste, inconcepibile come corpo finito da incorporare. Con lui Fede e Ragione prendono ciascuna la propria strada, la filosofia si affranca dalla teologia: la fede ha la finalità dell’obbedienza o della consolazione, la ragione ha l’obiettivo della verità.
Nel 1927, lo storico Joseph Klausner tenne una conferenza all’Università di Gerusalemme sul “carattere ebraico” della filosofia di Spinoza. Annunciò, quasi gridando, la sua intenzione di riportare Spinoza nel seno d’Israele: «Tu sei nostro fratello!», ripeté, con enfasi, tre volte. Appello motivato e accorato che non ebbe però alcun esito.