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 2025  dicembre 17 Mercoledì calendario

Quando Ciccio Graziani dovette rinunciare alla Porsche: la lezione al Torino e quella Fiat 500 che gli cambiò la vita

La vita sportiva di Francesco «Ciccio» Graziani è stata come una lunga e adrenalinica corsa sull’ottovolante, un’emozionante cavalcata divenuta trionfale l’11 luglio del 1982, quando al «Santiago Bernabeu» di Madrid si è laureato campione del mondo con la Nazionale: «Ero un bambino che sognava di fare qualcosa di importante nella vita – racconta nell’intervista pubblicata su Vivo Azzurro TV nel giorno del suo 73 esimo compleanno – sono partito con l’idea di fare il pilota di aerei, ma il sogno vero era quello di fare il calciatore». 
Il volo caratterizzerà comunque la sua carriera, anche senza aver mai tenuto una cloche tra le mani: «Quando c’erano i cross di Bruno Conti, Claudio Sala e Causio dovevo alzarmi il più in alto possibile per fare gol. Quando fai quel gesto tecnico è un po’ come volare». Francesco nasce a Subiaco, un paese di poco più di 8mila abitanti in provincia di Roma. «Mamma faceva le pulizie in uno studio medico, papà invece era muratore. Usciva di casa alle sei di mattina per poi rientrare la sera alle otto. Essendo molto ansioso, papà non mi ha mai visto giocare a calcio, aveva paura che mi infortunassi. Una volta stava giocando a carte al bar con gli amici e gli hanno detto che avevo fatto gol, lui allora ha offerto a tutti un giro da bere. Poi una volta arrivato a casa ha scoperto che non era vero».

Ciccio cresce con un pallone tra i piedi, dimostrando sin da piccolo di avere una marcia in più rispetto ai suoi compagni di squadra: «All’età di sedici anni sono andato a Roma, nel quartiere di Cinecittà, a giocare con il Bettini Quadraro. Mi sono quindi trasferito all’Arezzo e da lì ha preso il via la mia carriera, fino a portarmi dove sono poi arrivato». Esordisce in Serie A nel novembre del ‘73, un mese dopo segna il suo primo gol: «Il Torino è stato il club ideale, ho trovato un gruppo di compagni meravigliosi». Su tutti Aldo Agroppi: «È stato un fratello maggiore per me. Ad Arezzo guadagnavo 250 mila lire al mese, al Torino mi davano un milione. Erano un sacco di soldi. Un giorno passai davanti ad una concessionaria di macchine e vidi una Porsche, costava cinque milioni. La comprai. Quando la vide, Agroppi mi disse che non avevo ancora esordito in Serie A e non potevo andare in giro con una macchina del genere. Mi accompagnò a riconsegnarla al concessionario e mi fece dare una Cinquecento».
 
In maglia granata vince lo Scudetto nella stagione 1975/76, l’anno dopo si laurea capocannoniere. Lui e Paolo Pulici diventano per tutti i «Gemelli del Gol»: «In otto campionati abbiamo segnato 200 gol. Ci bastava uno sguardo, non parlavamo mai in campo. Credo non ci sia mai stata una coppia così prolifica nel calcio italiano». Dal Toro passa alla Fiorentina, dove sfiora un altro Scudetto, poi alla Roma, dove arriva ad un passo dall’alzare al cielo la Coppa dei Campioni. Sono due eroi del Mundial spagnolo, lui e Bruno Conti, a sbagliare i rigori che il 30 maggio 1984 consegnano al Liverpool il trofeo: «Il rammarico che ho è che con quella squadra avremmo dovuto vincere molto di più. Abbiamo vinto solo due Coppe Italia, siamo arrivati secondi due volte in Serie A e abbiamo perso una finale di Coppa dei Campioni ai calci di rigore proprio a Roma, dove io e Conti siamo stati testimoni in negativo di quella partita». Sessantaquattro presenze e 23 reti. È una media gol di tutto rispetto quella di Graziani in Nazionale, che fa il suo esordio in maglia azzurra il 19 aprile del 1975 a Roma con la Polonia 
Dopo aver partecipato al Mondiale del 1978 («ero un comprimario, anche lì avevamo una squadra fortissima»), quattro anni più tardi in Spagna diventa uno dei protagonisti del Mundial, dove gioca tutte le partite da titolare segnando anche una rete nella fase a giorni che si rivelerà determinante: «Il mio gol contro il Camerun fu liberatorio, servì per superare il turno grazie alla differenza reti. Dopo le prime tre partite ricevemmo tante critiche, la goccia che fece traboccare il vaso e che portò al silenzio stampa fu quando ironizzarono sul rapporto tra Cabrini e Paolo Rossi».
Le polemiche non fanno altro che compattare ancora di più il gruppo, dove giocano un ruolo fondamentale due figure come Dino Zoff ed Enzo Bearzot: «Più che un compagno di squadra, Zoff era un fratello maggiore. E poi c’era Bearzot, che non era un commissario tecnico ma il nostro papà. Con lui mi sono ritrovato a parlare anche di questioni familiari». La sua finale con la Germania dura solo sette minuti, a metterlo ko è un infortunio alla spalla: «In quel momento l’importante era che la squadra raggiungesse il traguardo. Al mio posto è entrato Altobelli, che fece benissimo segnando il terzo gol. Prima della finale in occasione del discorso alla squadra Zoff ci disse “ragazzi, noi possiamo fare la nostra storia e quella del calcio italiano solo se portiamo quella coppa a Roma. Altrimenti saremo solo i primi dei perdenti”. Quando a fine partita Dino mi ha passato la coppa mi sono ricordato di quel sogno da bambino, ho dato un bacio alla coppa e mi sono detto “Ciccio, ora puoi smettere di sognare, sei arrivato sul tetto del mondo"». Da una Nazionale campione del mondo a un’Italia che a fine marzo sarà chiamata a staccare il pass per il prossimo Mondiale: «La Nazionale mi piace. Credo che Gattuso abbia riportato il senso di appartenenza, mi dà l’impressione che sia un fratello maggiore per i giocatori. Ha coraggio, carattere e personalità. E li trasmette ai propri ragazzi». Parole al miele anche per i suoi “colleghi” attaccanti: «Ci stiamo rivalutando molto. Abbiamo Kean e Retegui, che hanno fatto benissimo, e Pio Esposito, che sta venendo fuori e ha grande entusiasmo. Deve imparare guardando Lautaro e Thuram, stare insieme a questi grandi attaccanti gli può fare bene. E poi c’è Scamacca, degli attaccanti che abbiamo è quello che mi piace di più».