Corriere della Sera, 17 dicembre 2025
Cosa ci dice una strage lontana
La strage che arriva da «down there» (da «laggiù», come gli inglesi chiamano l’Australia perché è dall’altra parte del mondo) ci dice molto di noi, da questa parte del mondo. È anzi una vera e propria lezione sull’antisemitismo: spiega perfettamente che cosa sia, e perché è pericoloso anche qui. Se ci si avventura nelle tenebre dei social, si può infatti constatare che una robusta fetta della nostra «società civile» inserisce senza alcun dubbio gli ebrei morti a Sydney nella contabilità generale della guerra di Gaza.
C onsidera perciò le vittime dell’eccidio in Australia una conseguenza (numericamente irrilevante) della più grande strage nella Striscia. Quasi un «danno collaterale» autoinflittosi da Israele. Molte persone, talune anche in buona fede, accettano insomma quell’idea di giusta vendetta, di motivata ritorsione, che è implicita nell’appello alla «Intifada globale». Le vittime sulla spiaggia di Bondi Beach non sono da considerare dei pacifici ebrei che si radunavano su una spiaggia per un giorno di festa, una bambina di dieci anni o un sopravvissuto all’Olocausto di 87 anni; ma soldati della macchina di sterminio di Netanyahu, che è lecito colpire ovunque si trovino e comunque si mascherino.
«È nulla in confronto al GENOCIDIO»: il paragone sulla Rete è costante, e implacabile. Anche chi concede che la carneficina di Sydney è «inaccettabile», poi subito aggiunge: «Ma prevedibile, dopo 3 anni di genocidio indiscriminato». «I sionisti hanno ucciso migliaia di semiti» (si fa riferimento alla definizione biblica per cui anche gli arabi sono di discendenza semitica); chi denuncia la strage australiana come un atto di antisemitismo è perciò accusato di «voler giustificare la strage quotidiana di semiti che dura dal 1948 in Palestina». «Sarà la vostra rovina, ed è un gran piacere potersi godere lo spettacolo: è solo l’inizio», promettono. È esattamente questa l’intersezione logica in cui l’antisionismo, e cioè l’odio per Israele in quanto patria del progetto sionista, diventa antisemitismo, cioè odio per gli ebrei in quanto gruppo etnico e religioso. Che vengono perciò colpiti, ovunque vivano e comunque la pensino (ci sono anche ebrei antisionisti) con la peggiore forma di «disumanizzazione»: perdono la loro individualità, le proprie qualità personali, perfino quel diritto alla «pietas» che è dovuto a tutti gli esseri umani, per trasformarsi in «loro», un nemico che si è macchiato di una colpa collettiva e per questo merita discriminazione e sofferenza.
Se un tempo tutti gli ebrei furono considerati colpevoli del «deicidio», oggi tutti gli ebrei sono considerati colpevoli del «genocidio». Li si può dunque a buon ragione cacciare dai ristoranti o aggredire per strada, anche se sono cittadini italiani, francesi o tedeschi. Oppure ucciderli su una spiaggia, se sono cittadini australiani.
Non sto ovviamente dicendo che l’antisionismo non abbia diritto di esprimere le sue ragioni, né che si manifesti per forza in forme violente; tutt’altro, spesso anzi si mantiene perfettamente all’interno del «free speech» e della critica allo Stato di Israele (critica che peraltro esercitano con severità anche molti che non sono affatto antisionisti, come testimoniano i co mmenti sulla tragedia di Gaza pubblicati dal Corriere in questi mesi). Gli antisionisti possono però essere crudeli fino alla discriminazione razziale, se in cuor loro compiono quella identificazione tra gli ebrei, tutti gli ebrei, l’unico popolo cui negano il diritto all’autodeterminazione, e lo Stato degli ebrei.
Non c’è da meravigliarsi, dunque, se Francesca Albanese, una propagandista efficace della causa palestinese e di solito prodiga di esternazioni pubbliche, non abbia ancora trovato, a tre giorni dalla strage, neanche una parola di pietà, non dico di condanna, per le vittime di SYdney. Si può pensare che non le sarebbe costata molto, anche a prezzo di una piccola ipocrisia. Ma se l’avesse fatto, immaginiamo, avrebbe temuto di contraddire la sua battaglia contro le colpe di Israele. L’amnesia non è mai soltanto un vuoto di mente, ma un meccanismo psicologico di difesa. E invece spezzare quel circolo vizioso che identifica l’intero ebraismo con Israele sarebbe decisivo per contrastare l’antisemitismo di ritorno, più che mai se venisse da indiscutibili sostenitori dei palestinesi.
Una gran mole di ricerche condotte negli Stati Uniti ci dicono infatti che il pregiudizio nei confronti degli ebrei, non per quello che fanno in Israele ma per quello che sono sospettati di fare in Occidente, è ormai parte del discorso giovanile, anche al di là degli orientamenti politici. Di conseguenza influencers e opinion leaders lo riflettono e lo vezzeggiano, in una spirale (una moda) che rischia di diventare perversa. «L’antisemitismo non è iniziato o finito con l’Olocausto», dice l’ International Holocaust Remembrance Memorial, la cui definizione era stata adottata in un disegno di legge dell’onorevole del Pd Graziano Delrio, sconfessato però dal suo partito come una iniziativa «personale». Se non siamo più in grado di riconoscerlo e di chiamarlo per nome, neanche quando uccide gli ebrei a quindicimila chilometri da Gerusalemme, allora vuol dire che è davvero di nuovo tra noi.