Corriere della Sera, 17 dicembre 2025
Traffico d’influenze, la riforma è salva
La riforma con cui il centro-destra ha depotenziato fin quasi a svuotarlo il reato di traffico d’influenze non è incostituzionale, ma limita in modo «significativo» la «tutela penale del buon andamento e imparzialità della pubblica amministrazione». E bene farebbe il Parlamento a intervenire con una legge sulle attività di lobbying per consentire poi di «rimeditare le attuali scelte in materia di disciplina penale del traffico di influenze illecite, sì da assicurare una più incisiva tutela degli stessi interessi collettivi».
È un invito che difficilmente sarà accolto dal governo e dalla maggioranza che lo sostiene – come molti altri in questi anni, nelle più diverse materie – quello rivolto dalla Corte costituzionale attraverso la sentenza con cui ha respinto l’eccezione di incostituzionalità sollevata da un giudice di Roma sulla riforma del traffico d’influenze, e che però denuncia come quella stessa riforma, seppure legittima, ha aperto un vuoto che lascia impunite «condotte di indubbia gravità, rimaste oggi del tutto sprovviste di sanzione».
La vicenda nasce da una delle tante inchieste avviate ai tempi dell’emergenza Covid sulle presunte mediazioni illecite per assicurare forniture di mascherine dietro lauti compensi per chi era in grado di mettere in contatto fornitori e acquirenti. Nell’infinita udienza preliminare avviata nel gennaio 2023, durante la quale è stato già prosciolto il commissario Domenico Arcuri per via dell’abolizione dell’abuso d’ufficio (sebbene lui avesse chiesto il giudizio abbreviato prima della riforma, con l’intenzione di essere assolto nel merito), rimanevano alcuni imputati di traffico d’influenze. Ma prima di prosciogliere anche loro per via di una riforma di quel reato che limita la punibilità della «mediazione illecita» all’ipotesi che avvenga per convincere il pubblico ufficiale a commettere a sua volta un reato, il giudice s’è rivolto alla Consulta per chiedere se questa modifica fosse conforme alla Convenzione di Strasburgo sulla corruzione (che obbliga gli Stati aderenti a introdurre il traffico d’influenze senza prevedere che sia finalizzata alla commissione di illeciti). E quindi alla Costituzione.
Ora la Corte ha risposto. Per l’Italia resta l’obbligo di adeguarsi alla Convenzione, ma come spesso accade anche l’accordo siglato a Strasburgo ha utilizzato formule «volutamente elastiche e generiche» nella definizione del reato, tal da rendere necessario l’intervento del legislatore nazionale per stabilirne i confini con maggiore precisione. Tanto più in assenza di una disciplina sull’attività di lobbying che tracci in maniera netta la distinzione «tra illegittime e legittime forme di intermediazione con i pubblici ufficiali».
Dunque la volontà di restringere al massimo l’applicazione del traffico d’influenze, limitandola all’unica condizione posta dalla riforma del 2024, rientrava nella discrezionalità del Parlamento, esattamente come nel 2019 ne aveva invece allargato il perimetro a un più vasto campo di comportamenti.
Da tutte queste considerazioni deriva la dichiarazione di legittimità costituzionale della «pur restrittiva definizione di “mediazione illecita”» decisa con la ridefinizione del reato targata centro-destra. Accompagnata dall’invito finale a introdurre le regole mancanti sulle attività dei lobbisti, «al fine di definire con chiarezza le condotte di illecita influenza sui pubblici ufficiali e di prevedere sanzioni per l’inosservanza delle relative prescrizioni». In modo da garantire «trasparenza nella prassi di interlocuzione con le istituzioni» e «rimeditare» – se il Parlamento lo riterrà – anche certe scelte recenti in tema di anticorruzione.