Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  dicembre 17 Mercoledì calendario

Trump rinvia ancora le sanzioni su Lukoil. L’ombra di favori ai suoi «oligarchi»

Iniziano a profilarsi le motivazioni dietro alcune delle svolte di Donald Trump nei rapporti con la Russia. Due in particolare: la gestione delle sanzioni sul petrolio e l’apertura degli Stati Uniti al riconoscimento alla Russia di alcuni territori ucraini invasi in questi anni. Su entrambi i fronti gli affari di pochi grossi investitori americani, in stretta collaborazione con la Casa Bianca e d’intesa con il Cremlino, stanno diventando sempre più leggibili. Così prende forma, attorno ai negoziati sulla guerra, un sistema oligarchico degli affari in cui l’America trumpiana sembra ispirarsi al modello russo.
Il sintomo che qualcosa del genere stia accadendo è arrivato una settimana fa, con un annuncio in sordina. Per la seconda volta l’amministrazione Trump ha rinviato, dal 13 dicembre al 17 gennaio, la scadenza per la cessione delle attività estere del gruppo privato russo Lukoil.
La posta in gioco è tutt’altro che trascurabile. Lukoil ha partecipazioni di rilievo in grossi giacimenti di greggio in Iraq (West Qurna 2), Kazakistan, Uzbekistan e Messico, oltre a una raffineria in Bulgaria e una rete di distribuzione in Finlandia. Il valore di questo patrimonio sarebbe di 22 miliardi di dollari, in condizioni normali.
Ma quelle attuali sono tutt’altro che condizioni normali. Il sistema delle sanzioni americane è tale che Lukoil è costretta a cedere le sue attività fuori dalla Russia in poche settimane e la stessa mancanza di tempo obbliga il gruppo ad accettare offerte al ribasso. Attivi per 22 miliardi di euro potrebbero passare di mano a prezzi molto inferiori: di fatto un esproprio, simile a quello che il Cremlino ha imposto alle compagnie occidentali che uscivano dalla Russia nel 2022. Dalla rete dei ristoranti McDonald’s, agli impianti Volkswagen, fino alla produzione di birra InBev, le proprietà di americani ed europei furono forzosamente trasferite a oligarchi graditi al Cremlino per la metà o meno del loro valore reale.
Oggi qualcosa di simile sta accadendo in direzione opposta. Una serie di gruppi americani e non solo, tutti con forti legami con la Casa Bianca di Trump, girano attorno alle proprietà estere della Lukoil. Fra i pretendenti le major statunitensi dell’energia Exxon Mobil e Chevron, ma anche il campione energetico Mol dell’Ungheria di Viktor Orbán.
Una svolta però è arrivata circa due settimane fa con una cena fra Trump stesso e David Rubenstein, fondatore e direttore esecutivo del maxi-fondo di private equity americano Carlyle. Rubenstein ha espresso interesse per le proprietà di Lukoil. Appare dunque molto probabile che Trump abbia fermato gli orologi della vendita per dare tempo a Carlyle, da sempre vicino ai repubblicani, di preparare la propria offerta.
Poco importa se i conflitti d’interesse sono visibili dappertutto: oltre che un investitore, Rubenstein è anche un influente commentatore per la televisione di Bloomberg. Ma ormai le relazioni di tipo oligarchico «alla russa» sembrano prevalere nel mondo del business attorno a Donald Trump.
Così va anche per un’altra partita, attorno alla centrale nucleare di Zaporizhzhia. Essa oggi è sotto occupazione dell’esercito di Mosca, con una condivisione della produzione elettrica al 50% con la parte libera dell’Ucraina. A Putin, gli emissari trumpiani Steven Witkoff e Jared Kushner avrebbero già segnalato riservatamente che l’amministrazione americana sarebbe disposta a riconoscere la sovranità ufficiale di Mosca sopra la parte invasa di Zaporizhzhia (centrale nucleare inclusa). Sarebbe il ripudio radicale di quasi un secolo di dottrina di politica estera degli Stati Uniti, che almeno dall’invasione giapponese della Manciuria del 1932 si rifiutano di riconoscere agli invasori i territori strappati ad altri Paesi con l’uso della forza.
Ma, nel caso di Zaporizhzhia, sembra esserci una ragione d’affari: esiste il progetto di un data center americano per l’intelligenza artificiale da ubicare nella parte dell’area sotto controllo russo, alimentato proprio dall’elettricità a basso costo della centrale. In suo nome, l’America di oggi è disposta a seppellire i principi che essa stessa volle per la creazione delle Nazioni Unite ottanta anni fa.