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 2025  dicembre 16 Martedì calendario

New York: la Meglio gioventù tra birra, sesso, speed e poesia

Costruire un canone letterario queer in un sistema editoriale che non lo contempla; cercare ostinatamente una narrazione anti-istituzionale e obliqua dell’arte, dello scrivere, dell’esistere; resistere e rivoluzionare, camminando lungo i bordi insieme a una comunità spiantata, maledetta e solidale: anche questo è Chelsea Girls di Eileen Myles – da poco in libreria per Mattioli 1885 e la traduzione di Alessandra Ceccoli –, memoir destrutturato e opera-feticcio della letteratura underground. Un romanzo lancinante, illuminante, indispensabile. È la prima volta che viene pubblicato in Italia: il debutto oltreoceano è datato, invece, 1994. Myles è stata definita la “rockstar della poesia americana”: venuta al mondo nel 1949, ha in curriculum più di venti volumi spaziando anche nella narrativa, nella saggistica e nella drammaturgia teatrale (performance incluse). Sempre fuori dai radar facili, è una delle voci più influenti e irriducibili della scena a stelle e strisce. Che ha lasciato il segno sulla cultura di massa: negli anni Novanta, per esempio, si candidò alle Presidenziali Usa a mo’ di “write-in candidate”, portando i versi nell’agone pubblico come gesto oltranzista e indocile. Mentre nella serie tv Transparent, un Golden Globe nel 2015, la figura della studiosa femminista Leslie Mackinaw è modellata su di lei.
Chelsea Girls racconta con stile forte e irriverente, riflessivo e corrosivo, l’educazione sentimentale di Eileen (originaria di Boston), avvenuta soprattutto a New York nei febbricitanti 70-80. La scrittura è frammentata e no-plot, diretta se non brutale ma tagliata, qua e là, da squarci di dolcezza. Gli anni da assistente di James Schuyler, il milieu alternativo dell’epoca, le maratone notturne nei gay club, la vita ai margini e al limite tra alcol e droghe di tutti i tipi. “Eravamo fatte di speed, ubriache… Un po’ di birra, un po’ di coca, un po’ di facce note… All’inizio mi sballavo sulla linea F, da qualche parte tra il Queens e Manhattan. Guardavo fuori verso il cielo che si faceva nero e, boom!”. Poi ci sono i compagni di strada illustri, certo, nella pericolosa e spericolata Grande Mela del tempo: da Patti Smith a Robert Mapplethorpe (sua la foto di copertina), da Nan Goldin ad Andy Warhol (il testo si intitola come un suo film celeberrimo) e Allen Ginsberg, che lei brutalizzò nel 1982. La scrittrice stava presentando un suo libro e, quando il beat le chiese di firmargli una copia, replicò a brutto muso: “Caro Allen, sono felice che mi consideri una poetessa. Con affetto, Eileen. Sono l’unica donna che tolleri, non è vero Allen?”.
E poi tanto sesso e desiderio senza filtri, le relazioni articolate, il rifiuto e l’abiura della presunta normo-femminilità, il corpo come territorio nuovo e l’orgoglio lesbico: “No, in effetti non ho mai pensato di scoparmi gli uomini: non li trovo carini, penso che puzzino, e via dicendo”. I loft e le estasi downtown, i disinganni e le primissime liriche: “Iniziai a tenere un diario, annotando cosa avevo mangiato, chi credevo mi odiasse, chi amavo e come ero riuscita a vincere. Il componimento poetico è nato con il lavoro, quando mi sono resa conto che non avrei vinto e che, di fatto, non ero nemmeno presente. Così cominciai ad abitare le mie poesie”. L’alba incandescente della stagione dei reading: “Esitai, mi impappinai, dimenticai parecchie cose e mi derisero, ma alla fine le tirai fuori. E non accadde nulla”.
Quel titolo ammaliante, infine: sarà che celebra il leggendario palazzo vittoriano al 222 West della 23esima strada di NY. “Scrivevo poesie sui tovaglioli e mi guadagnavo da vivere in un modo che non avrei mai dimenticato – annota Myles –. Cucinavo french toast per Schuyler, poi mi sedevo e leggevo i libri che tiravo su da terra nella sua stanza bellissima e incasinata del Chelsea Hotel”. Già, proprio l’albergo di Dylan Thomas (che vi morì) e Bob Dylan, di Jack Kerouac (che vi redasse porzioni di On The Road) e Jimi Hendrix, di Sid Vicious e della fidanzata Nancy Spungen (che vi fu ritrovata cadavere il 12 ottobre 1978, nella stanza numero 100). Tra quelle mura decadenti, un altro inquilino di lusso a venire, Leonard Cohen, concepì la meravigliosa e omonima canzone, ispirata al suo incontro con Janis Joplin. “Be’, non importa/ siamo brutti, ma abbiamo la musica/ e poi te nei sei andata, non è così, piccola?/ Hai semplicemente girato le spalle alla folla/ te ne sei andata via, non ti ho mai sentito dire/ ho bisogno di te, non ho bisogno di te/ ho bisogno di te, non ho bisogno di te/ o altre cretinate del genere”.