la Repubblica, 16 dicembre 2025
Cile, il terremoto politico che dopo 20 anni resuscita il fantasma di Pinochet
Augusto Pinochet, l’uomo che dal 1973 al 1990 impose sul Cile un regno del terrore, con ogni probabilità sta sorridendo nella tomba. Un suo grande ammiratore, il fanatico di estrema destra José Antonio Kast, è appena stato eletto presidente con il 58% dei voti, sbaragliando l’avversaria di centrosinistra, la comunista Jeannette Jara, fermatasi al 42%. È la prima volta, da quando trentacinque anni fa nel Paese è stata restaurata la democrazia, che un sostenitore della dittatura ottiene la presidenza. È vero, la vittoria di Kast non deve essere interpretata come un sostegno partecipe alla sua venerazione per Pinochet. Il suo programma e le sue promesse, oggi tristemente familiari alle donne e agli uomini degli Stati Uniti e di altri Paesi, hanno fatto presa su una popolazione arrabbiata, confusa e desiderosa di un cambiamento radicale: la promessa di espellere tutti i 330 mila immigrati clandestini e di usare il pugno di ferro contro il crimine e il narcotraffico, il licenziamento di innumerevoli funzionari pubblici (che uno dei suoi consiglieri più stretti ha definito «parassiti») e l’impegno a ridurre l’inflazione. È possibile, quindi, vedere questo risultato come uno dei tanti esempi della tendenza mondiale verso l’autoritarismo nativista, ma in un Paese la cui lotta vittoriosa per la democrazia è stata, nel corso dell’ultimo mezzo secolo, fonte di ispirazione per il mondo intero, è particolarmente sconcertante.
I cileni furono capaci di liberarsi della dittatura, in particolare con il referendum dell’ottobre 1988, quando i tentativi del generale Pinochet di mantenere indefinitamente il governo del Paese vennero sonoramente sconfitti; un voto tanto più coraggioso perché aveva sfidato un regime che controllava i media, l’economia e la forza pubblica. La stella di Pinochet si offuscò ulteriormente nel 1990, quando fu restaurata la democrazia, e ancora nel 1998, quando il generale fu arrestato a Londra con l’accusa di aver commesso crimini contro l’umanità e, successivamente, quando si scoprì che aveva sottratto al paese milioni di dollari.
Sembrava che la sua morte, il 10 dicembre del 2006 (ironia della sorte: è la giornata internazionale per i diritti umani), avesse inflitto il colpo di grazia alla sua influenza. In tutte le città del Cile si riunirono folle festanti che scandivano «Adiòs, General». Quei cittadini che esultavano e ballavano avevano l’occasione di seppellire per sempre, oltre che le sue spoglie, le sue idee e l’influenza che aveva esercitato sul Cile per così tanti, tristi decenni.
Io non ne ero del tutto sicuro. Mi chiesi se il generale fosse realmente morto. E scrissi: «Il Cile cesserà mai di essere una nazione divisa? La battaglia per l’anima del mio Paese è appena cominciata». Quasi venti anni dopo, vorrei essere stato meno profetico.
Molti sostenitori di Pinochet, recalcitranti, avevano continuato a venerarlo (per aver salvato il Cile dal comunismo, per aver imposto la legge e l’ordine, perché le sue politiche economiche neoliberiste avevano, secondo loro, fatto del Cile un Paese «moderno»). Ma erano una minoranza. La vittoria di Kast va quindi interpretata come un terremoto politico ed etico. L’uomo più potente del Paese cercherà di ripulire il passato violento della dittatura, le esecuzioni, gli esili, le torture e i campi di concentramento. E ha già annunciato di voler graziare i 141 detenuti condannati dalle corti cilene per violazioni dei diritti umani, compreso Miguel Krasnoff, che per i suoi crimini è stato condannato a più di mille anni di prigione.
Inoltre, Kast ha intenzione di abolire l’Istituto per i diritti umani e la commissione incaricata di indagare sulla sorte dei 1.210 cileni tuttora desaparecidos. Di più: fautore di un cattolicesimo reazionario e tradizionalista, è contrario all’aborto, anche in caso di stupro o di rischio per la vita della madre; ha votato contro le unioni civili per le coppie omosessuali; respinge le rivendicazioni delle popolazioni indigene riguardo ai loro diritti e alla loro identità.
In questa crociata per riscrivere il passato e riplasmare il futuro, Kast incontrerà la resistenza dei milioni di cileni che hanno votato contro di lui; anche se al momento sono una minoranza, sono gli eredi di una tradizione centenaria di ricerca della giustizia. È di questa incarnazione della speranza e della lotta che mi ero innamorato al mio arrivo in Cile, a dodici anni: prima mi avevano sedotto le bellezze naturali, la cordillera e i suoi mari agitati, poi ho scoperto la vera bellezza nel tumulto della gente che «come un fiume di tigri», per dirla con Neruda, avanzava risoluta verso la liberazione. Quel fiume traboccherà di indignazione quando Kast proverà a smantellare il welfare creato da tanti uomini e donne che sono stati disposti a rischiare la vita per costruire un paese fondato sulla solidarietà anziché sul profitto. Non hanno avuto paura in passato e non ne avranno ora. Ma perché la mobilitazione che si opporrà a Kast abbia successo, per fare in modo che questa sia solo una parentesi nelle alterne vicende del Cile e non una tendenza dominante dei prossimi decenni, la resistenza avrà bisogno di un altrettanto valoroso tentativo di trovare una via d’uscita dalla crisi. Perché Kast non avrebbe vinto se i partiti di centrosinistra e le loro élite non avessero fallito nel tentativo di proporre un’alternativa percorribile, se non avessero perso il contatto con i problemi che assillano il cittadino medio. Ciò di cui c’è bisogno adesso è un profondo rinnovamento intellettuale delle forze progressiste, una dolorosa resa dei conti con i nostri limiti. Serve uno sforzo per capire come la lotta per la democrazia può essere collegata alla lotta per avere case e lavori migliori, a quella contro le devastazioni dell’apocalisse climatica, a quella per l’uguaglianza, in un mondo dominato dai super ricchi. Ora che il Cile ferito e instabile si unisce alla schiera delle nazioni che si trovano a fare i conti con l’autoritarismo, la frase che ho usato tanti anni fa in occasione della morte di Pinochet torna a essere attuale: «La battaglia per l’anima del mio Paese è appena cominciata».