Corriere della Sera, 16 dicembre 2025
Boni, il pioniere del Palatino
È uscito da poco un volume sul più famoso archeologo del Foro e del Palatino, di cui quest’anno si celebra il centenario dalla morte: Giacomo Boni nella memoria del Novecento, a cura di Sandro Consolato e altri, edito dal Parco Archeologico del Colosseo, L’Erma di Bretschneider. Il libro corona una serie di attività del Parco su di lui, tra le quali spicca una mostra del 2021. Il Parco è diventato un centro di eccellenza, grazie ai suoi funzionari – è stato retto fino a ora dalla capace Alfonsina Russo – e alla collaborazione con l’Università di Roma La Sapienza. L’opera raccoglie testi di 15 «Incontri» (1900-1925), di 19 «In morte» (1925) e di 24 «Ritorni» (1926-1976). Manca il cruciale ultimo quarto del ’900, per cui gli archeologi ritornati nel libro su di lui come Maiuri, Romanelli e Carettoni – poco interessati alla stratigrafia – non hanno valutato in pieno virtù e vizi del primo stratigrafo in Europa. Gli archeologi classici hanno accettato la stratigrafia ma solamente nella preistoria e protostoria, come se quel metodo servisse esclusivamente per grotte e capanne (di cui è fatta la Roma dei primi re).
Boni è stato tutto e il contrario di tutto. Era tutto perché non essendo stato uno specialista – filologo, storico, storico dell’arte, topografo – disinvoltamente spaziava da autodidatta tra natura, architettura, archeologia, salute sociale e morale e sacralità pagane, diventando il mitico eremita, veggente e mago che grandi della terra e pellegrini andavano a venerare sul Palatino. Lo dipinge con acutezza e rispetto Benedetto Croce (nel 1940), individuando il suo rapporto, oltre che con Ruskin, con l’estetismo e il soggettivismo spirituale di Angelo Conti, con il quale Boni era andato a invocare Apollo a Cuma… Questi dannunziani si trasferivano nei «padri» – mitostorici e storici – con poca critica e molta estasi. Così anche Boni è sfociato agevolmente nel fascismo.
Ciò ha comportato una disgrazia doppia. Da una parte perché ha ricevuto il plauso dell’archeologia ufficiale che alla grande sterrava i monumenti – Lugli non credeva alla stratigrafia perché aveva trovato, non avendo individuato un pozzo o una fossa, un pitale in profondità e Romanelli rispondeva alla critica del Meiggs sugli sterri di Ostia che lì non vi erano strati… Dall’altra perché ha ricevuto la ripulsa di figure dell’antifascismo di sinistra, come Ranuccio Bianchi Bandinelli che nel 1955 ha visto in lui un retore genialoide, la cui opera era durata pochi anni restando inedita. Così la destra ha imbalsamato, oscurato e mai imitato i lati buoni di Boni e la sinistra ha trovato nella sua confusione ideologica la ragione per trascendere l’archeologia nella storia dell’arte. Il primo che da sinistra ha rivalutato il lato buono di Boni è stato chi scrive in Archeologia e cultura materiale, del 1979 e in Storie dalla terra, del 1981 (editi da De Donato).
Dopo Boni è esistito in Italia un solo stratigrafo dell’età classico-medievale, anche lui formatosi da solo, Nino Lamboglia – mal riconosciuto dalla cultura accademico-ministeriale —, che si era formato accanto al preistorico Luigi Bernabò Brea. E stato lui il mio primo e generoso maestro di stratigrafia a partire dall’estate del 1967, quando mi sono preparato a scavare a Ostia sotto la protezione comprensiva di Giovanni Becatti, sterratore durante il fascismo pentito. Insomma Boni primo stratigrafo è stato seppellito sul Palatino insieme al metodo stratigrafico. Tra la sua morte nel 1925 e il primo manuale di scavo italiano sono passati 56 anni.
I meriti di Boni sono stati tre. 1) L’essere stato lo Schliemann – scopritore della Troia di Priamo – della Roma di Romolo: infatti il primo pavimento in ciottoli del Foro, da lui individuato in inappuntabile stratigrafia, si data intorno al 700 a.C.; ma la colmatura della sua valle deve aver preso più di una generazione per cui la fondazione di Roma ha da porsi nel cuore dell’VIII secolo a.C., in accordo con la tradizione mitostorica e con i nostri scavi trentennali sul Palatino. 2) L’essere stato il primo a praticare il metodo stratigrafico, solo però in saggi limitati, per cui quando Boni scavava per grandi aree anche lui sterrava, fotografava col pallone e rinterrava, come ho potuto constatare sulla pendice settentrionale del Palatino. A scavare per la prima volta stratigraficamente e integralmente per grandi aree – conquista fondamentale – sono state le Units archeologiche inglesi a partire dagli anni Settanta, metodo da noi scoperto osservando i britannici scavare a Cartagine (Lucilla Anselmino Balducci e altri, Cartagine, scavi italiani 1973-1977, L’Erma di Bretschneider, 2025). 3) È stato un esattissimo e artistico rilevatore e disegnatore di quanto andava scavando, ché lo scavo si documenta più con planimetrie e sezioni che tramite parole.
Scriveva Boni: «Durante le vacanze scavai con la paletta del carbone nel terriccio nero fino a raggiungere un’argilla biancastra». Lo scavo archeologico sta nel distinguere gli strati e nello scavarli, uno dopo l’altro, nell’ordine inverso in cui si sono prodotti, come si fa nel gioco di Shanghai. La legge è: si scava solo lo strato che copre ma non è coperto da altri (anche i muri sono strati). Croce vedeva nella stratigrafia un fatto «tecnico-strumentale», ma sbagliava… Essa rappresenta una rivoluzione nella cultura umanistica, perché passa dal dar la caccia e dal trascegliere il grande nella storia e nell’arte – tralasciando o scartando il resto – al metodo per analizzare e comprendere il tutto dell’umano: i contesti rurali e urbani con le architetture composte di muri, arredi e giardini, che rivelano i costumi. I geologi capiscono la terra naturale per strati datati dai fossili (Lyell, Principles of Geology, 1830) e gli archeologi la terra artificiale con pavimenti, muri, coperture e oggetti per strati datati dalla ceramica.
Questa rivoluzione culturale è lungi dall’essere compiuta in Italia – Paese tipicamente estetizzante —, dove sia nelle facoltà di Lettere che nel ministero della Cultura mancano gli «archeologi della modernità». D’altra parte di recente il ministro Alessandro Giuli ha nominato un funzionario realmente archeologo a capo dell’Istituto centrale per l’Archeologia, che pertanto soltanto ora può essere fondato, prendendo a modello l’Istituto centrale per il Restauro e speriamo che ne raggiunga le glorie.
Gli antiquari (non in senso mercantile) sono interessati a tutte le parti ma non alla loro relazione nel tutto; gli storici dell’arte sono interessati solo alle grandi arti per cui antologizzano gli insiemi depauperandoli; i topografi e rilevatori dei monumenti antichi hanno rinnegato la stratigrafia (come Cairoli Giuliani). Solo gli archeologi realmente e pienamente tali – umanisti e stratigrafi, tipologi, topografi – sono in grado di conoscere sia le parti che il tutto tramite procedure e sistemi. L’archeologia, nata per indagare l’arcaico, lambisce ormai la contemporaneità – contraria e complementare all’ottica storico-architettonica e artistica – interessata al tutto nello spazio e nel tempo, così che le parti – di varia qualità – diventano importanti quanto le relazioni tra di loro – di varia intensità. È il contesto, bellezza!