Corriere della Sera, 16 dicembre 2025
Intervista a Massimo Wertmüller
Massimo Wertmüller, 69 anni, ha un cognome che pesa, un rapporto con la zia famosa, Lina Wertmüller, fatto di luci e qualche ombra. Questa è la sua storia.
Dov’è nato?
«Alla Garbatella, quartiere popolare di Roma diventato nel tempo trendy».
Il suo primo ricordo?
«La culla da neonato – lo so che sembra assurdo ricordare da neonato, ma è così – ricordo le pareti della culla e il suo profumo, e il suono della cornamusa sulle parole era meglio morire da piccoli».
Suo padre era fratello di Lina Wertmüller.
«Si chiamava Enrico, era più grande di Lina. Ha fatto tante cose artistiche di rilievo, era il grafico del manifesto di Fratello sole sorella luna di Zeffirelli, dipingeva e durante la guerra suonava al pianoforte musica jazz con Carlo Loffredo. Aveva dieci talenti diversi. Ho una foto di papà e Lina a una festa di Carnevale, lui vestito da Pierrot con la lacrima sulla guancia, lei vestita da zingara con due carboni che erano i suoi occhi».
Andavano d’accordo?
«Insomma... un amore sincero, un rapporto difficile».
Il suo cognome per esteso è impronunciabile.
«All’anagrafe è Von Elgg Spanol von Braueich. Cognome nobile, ma è una storia sepolta. Nell’800 ci fu un duello d’amore tra un Wertmüller che dovette scappare a Napoli dopo aver ucciso un’alta carica dello Stato».
Lei come attore ha debuttato con sua zia Lina?
«Anzitutto non voleva essere chiamata zia, si arrabbiava moltissimo. Ho cominciato con le rappresentazioni sacre al ginnasio, dietro la porta di uno sgabuzzino facevo la voce fuori campo di Jacopone da Todi. Poi fondai La Pochade, una compagnia con cui facevo Marlowe e Jarry nei garage. Era la palestra dove ho capito che mi piaceva recitare. Prima ancora di Lina feci, da protagonista, un film di Franco Rossetti».
E poi?
«Poi c’è stata Lina, il Laboratorio di Gigi Proietti, la tv col gruppo La Zavorra in Al Paradise, il varietà di Antonello Falqui, simbolo di un’eleganza che non c’è più stata. Ricordo una puntata alla vigilia di Natale, alla fine delle prove, era sera, disse: buonanotte a tutti meno che alla Zavorra. Non avevamo il finale del nostro sketch, ci tenne lì fino a quando non lo trovammo».
C’era Rodolfo Laganà, ci ha appena recitato a teatro.
«Sì, in un testo di Stefano Reali ambientato durante l’occupazione nazista a Roma, è venuta Luciana Romoli che fu staffetta partigiana da bambina. Piangeva tutta la sala».
Come vive Laganà una malattia terribile come la sclerosi multipla?
«Ha sempre avuto e lo ha ancora oggi il sorriso sulle labbra. Auguro a tutti di avere il suo carattere, in una situazione come quella».
E Gigi Proietti?
«Era generoso, a cena dopo lo spettacolo si faceva l’alba con barzellette e aneddoti. Una volta con Pino Quartullo e Rodolfo ci assentammo tutti e tre per un bisogno corporale, il cibo ci aveva fatto male, quando tornammo Gigi ci fissò in modo terreo e disse: se vi drogate, vi prendo a cazzotti».
Con La Zavorra ha goduto di una popolarità che poi non ha più avuto: perché?
«È la domanda che mi faccio da decenni, senza avere una risposta. Forse ho pestato qualche piede, forse ho sbagliato qualche scelta, ma ho recitato per Gigi Magni, che per me è stato un secondo padre, per Monicelli, per Risi. C’è un criterio di privilegi per via di una legge, elitaria, rimasta nella pratica e purtroppo voluta dalla sinistra, secondo cui i fondi pubblici a un progetto di cinema venivano dati per il curriculum e i premi vinti».
Chiamarsi Wertmüller
«Da parte di Lina fu quasi un dovere affettivo. L’abbiamo vissuto entrambi con un sospetto di nepotismo, l’aiutare al di là del merito. Le più grandi soddisfazioni le ho avute con Magni e Scola. I personaggi che mi proponeva Lina erano carini, ma se volava un vaffa lo prendevo io».
Erano più gli svantaggi...
«Questo terreno minato della parentela non mi è servito. Era tosta. Mi ha insegnato la disciplina, indispensabile per diventare competenti e per sostenere la qualità. Di tutti i maestri di una volta, oggi non ce n’è manco uno».
Però strapazzava anche pezzi da novanta.
«Una volta tagliò a pezzi, a teatro, un abito di Monica Vitti, la minacciò di spaccarle la faccia se non si fosse messa la tuta come tutti gli altri attori; a Luciano De Crescenzo azzannò un dito perché in Sabato, domenica e lunedì gesticolava troppo. Questa cosa del gesticolare la mandava ai matti. In uno dei miei tre o quattro film per Lina, il titolo è In una notte di chiaro di luna, c’era un cast pazzesco, Dominique Sanda, Nastassja Kinski, Peter O’Toole, Faye Dunaway, c’era anche un attore francese che arrivava sempre in ritardo sul set».
E cosa è successo?
«Quello arrivava tutto profumato che sembrava uscito da un salotto parigino, dispensando bonjour a tutti con aria serafica. Quando toccava a lui, gesticolava come un forsennato. Al cinema una delle prime cose che ti insegnano è di non muovere le mani. Alla terza volta Lina gli mise le mani sotto il sedere e gli disse: “Lo vedi dove te le devi mettere ‘ste mani?”. Lui tremava tutto, pianse come un bambino. Quella severità non funzionava con tutti gli attori».
Avrà conosciuto Giancarlo Giannini, protagonista dei film più ispirati di sua zia.
«Ci ho anche lavorato, ha un’altra natura da Lina, è riflessivo, interiorizza, si auto psicoanalizza. Sul set di La fine del mondo nel nostro solito letto in una notte piena di pioggia, a fine riprese, una notte passeggiando mi disse: “Non so più dove sono: chi è Giancarlo Giannini?”. È la domanda di uno che non vuole dimenticare sé stesso».
Lina come accolse l’Oscar alla carriera?
«Non gliene fregava nulla, lo visse con disincanto, però era onorata. Disse: cominciamo a fare parità di genere. L’Oscar lo chiamerò Anna».
Perché erano così fluviali i titoli dei suoi film?
«Non gliel’ho mai chiesto».
Nella sua bella casa in pieno centro di Roma riceveva, quando la intervistavamo, in vestaglia.
«Era una donna pop, anarchica, libera, colorata».
Massimo, rimpianti?
«Aver dato retta ai consigli di Lina, ma quando hai un genio in casa che fai, non le dai retta? Mi diceva sempre: tu vuoi essere leva della vita o l’ingranaggio della vita?».
Cosa vuol dire?
«È un concetto filosofico un po’ gesuitico che a me non piace: o stai alla leva o all’ingranaggio. Un ragionamento un po’ elitario. Non dovevo perdermi nella comicità televisiva, dovevo puntare al cinema di serie A, La Zavorra la guardava dall’alto in basso. La nostra era una comicità surreale, per esempio, fingevamo di essere spettatori di una partita di tennis senza seguire la pallina ma muovendo la testa a destra e a sinistra verso il cielo. Il nostro gruppo si sciolse nel 1984 senza aver capito il successo che stava vivendo. Ecco, il rimpianto è di aver dato retta a Lina, seguendo per un tratto il cinema autoriale, faticando. Non era facile, Lina metteva anche soggezione».
E adesso?
«Lavoro molto, sia al cinema, come comprimario, che a teatro, anche se c’è l’aggravante dell’età, non è che a quasi 70 anni piovano personaggi».
E cosa sta facendo?
«Deve uscire Under the Rain, girato in inglese con Connie Nielsen, che è nel Gladiatore. Di solito mi danno personaggi più grandi d’età di me, tra un po’ sul set camminerò col girello. Il 19 all’Auditorium di Roma riprendo Lina’s Rhapsody, dove racconto aneddoti su mia zia e Nicoletta Della Corte canta le sue canzoni, perché Lina è stata anche una magnifica autrice di testi, le parole diAmarcord erano sue e così Mi sei scoppiato dentro il cuore, con Mina».
Ma la prima immagine di Lina, quando pensa a lei?
«Mi è sempre apparsa come un animale minaccioso, direi un puma, che ti salta al collo. Ma non è una cosa negativa. Io amo gli animali, una passione che condivido con mia moglie Anna, dormiamo con i nostri cani, Rocco e Pupetta, due puri meticci. Ho avuto tartarughe e conigli. Siamo attivi nell’impegno civico, se devo scendere in piazza, lo faccio per una causa animalista».