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 2025  dicembre 16 Martedì calendario

La parabola di un uomo e della ex colonia che aveva difeso sul giornale e in piazza

Il caso Jimmy Lai riassume la storia recente di Hong Kong e dà una dimensione umana al dramma politico. Lai è un rifugiato cinese che aveva costruito dal niente il proprio successo nell’industria tessile della colonia britannica e a un certo punto della vita decise di investire il capitale nella stampa, spiegando che «l’informazione è libertà». Non ha combattuto la sua battaglia democratica solo dall’ufficio di proprietario del quotidiano Apple Daily e di un piccolo impero editoriale: ha rischiato anche in prima fila fin dai tempi, oggi incredibilmente lontani, della Rivoluzione degli ombrelli, autunno 2014. Lo testimonia una foto comparsa allora su tutti i giornali del mondo: in primo piano un ragazzo con le braccia levate di fronte alla polizia, pochi passi indietro un signore in camicia bianca avvolto da una nube di lacrimogeni. Era il milionario Jimmy Lai.
Nato in Cina nel 1947 da una famiglia di possidenti terrieri del Guangdong punita dal nuovo governo comunista, era arrivato da ragazzo nella colonia britannica per lasciarsi alle spalle il pauperismo eretto a sistema di governo sociale da Mao. Negli Anni 70 aprì a Hong Kong un’industria tessile e impose anche sul mercato cinese il suo marchio di abbigliamento economico ispirato alla moda occidentale. Era già milionario, nel 1989, quando lo sdegno per il massacro di piazza Tienanmen lo spinse in politica.
Scrisse un articolo su una rivista hongkonghese nel quale definiva il primo ministro cinese Li Peng «un figlio di buona donna». Il suo futuro come industriale in affari anche sul mercato della Repubblica popolare era segnato. Jimmy Lai decise di dedicarsi solo alla stampa e fondò Apple Daily, giornale democratico che voleva difendere e allargare le «libertà speciali» dell’ex colonia britannica.
Il lungo ritorno di Hong Kong alla Cina era cominciato nel 1984, quando Pechino e Londra (potenza coloniale dal 1841 dopo aver vinto la Guerra dell’oppio) firmarono la Joint Declaration per la restituzione, fissandola al 1997. Il saggio Deng Xiaoping disse alla signora Thatcher: «Anche con noi comunisti, nella City le azioni rimarranno calde in Borsa, i ballerini continueranno a danzare nella notte e i cavalli galopperanno sempre all’ippodromo». Oltre la battuta, Deng accettava il principio fondamentale: la gente di Hong Kong avrebbe governato Hong Kong, almeno per 50 anni, dal 1997 al 2047. Con l’impegno a garantire «un Paese e due sistemi» (autoritarismo cinese accanto alla quasi democrazia dell’isola), il Piccolo timoniere aveva forse in mente una sperimentazione liberale. O più probabilmente voleva prendere tempo in attesa che la Repubblica popolare diventasse superpotenza.
Nel 2014 e poi nel 2019, Xi Jinping temette di perdere il controllo degli hongkonghesi, che scendevano in corteo a milioni per difendere il loro sistema politico. Il giornale di Lai appoggiava la mobilitazione dei giovani e contestava la Legge di sicurezza cinese imposta nell’estate 2020. Apple Daily testimoniò anche l’arresto del suo editore ma nel 2021 fu costretto a chiudere.
Jimmy Lai ha un passaporto britannico. Avrebbe potuto andare in esilio a Londra. Non lo ha fatto. «Mio padre dice che Hong Kong gli ha dato l’opportunità di emergere quando arrivò fuggiasco dalla Cina e non ha voluto tradirla. Ha detto che se fosse andato via avrebbe fatto perdere al movimento democratico parte della sua integrità», ha spiegato al Corriere il figlio Sebastien.
Donald Trump ha promesso di «fare il massimo» per ottenere la liberazione del prigioniero. Il presidente americano sarà a Pechino da Xi ad aprile e potrebbe tentare il «beau geste» dell’intercessione. Nel 2017, nonostante una grande campagna internazionale, il governo cinese decise di lasciar morire in carcere il premio Nobel per la Pace Liu Xiaobo.