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 2025  dicembre 16 Martedì calendario

I timori di Roma e Parigi sui propri asset a Mosca (a rischio rappresaglia)

In Comma 22, un romanzo di oltre mezzo secolo fa, per risolvere un problema va soddisfatto un presupposto, ma quel presupposto non si può soddisfare se prima il problema non è risolto. I governi europei, di fronte all’urgenza di finanziare l’Ucraina, per il momento sono esattamente là. Lo sono al punto che ormai in molti sperano segretamente che Steve Witkoff tolga loro le castagne dal fuoco trovando un accordo fra Kiev e Mosca entro giovedì, in modo che i leader non siano costretti a decidere.
Perché non sono pronti, ognuno condizionato dai propri tabù e dai propri avversari o alleati interni. Alcuni, per la verità, incalzati anche dalle imprese dei rispettivi Paesi che in questi anni non hanno mai lasciato la Russia e ora temono ritorsioni del Cremlino. È il caso di Giorgia Meloni ed Emmanuel Macron: spesso rivali, i leader di Roma e Parigi in questi giorni si trovano in una condizione simile. La Francia ha in Russia le partecipazioni di TotalEnergies nella società petrolifera Novatek (19,4%) e in quella del gas Yamal LNG (20%), per un valore di oltre 10 miliardi di euro. L’Italia ha Ferrero, Cremonini, De’ Longhi, Marcegaglia, più varie case farmaceutiche e le attività commerciali di Campari, con conti nel complesso da ben oltre mezzo miliardo di euro nei quali sono confluiti gli utili registrati in Russia dal 2022. Di fatto solo Eni e Enel, fra le italiane, uscirono dalla Russia dopo l’aggressione totale all’Ucraina.
Tutte ora temono che Vladimir Putin faccia loro sequestrare impianti, depositi e quote, se l’Europa decidesse di utilizzare le riserve congelate di Mosca a favore dell’Ucraina. È un timore razionale: il governo russo di recente ha varato un decreto esattamente a questo scopo. Ma ora la pressione di alcuni grandi gruppi europei sui rispettivi governi rende i leader più esitanti nel decidere l’uso a favore dell’Ucraina dei beni russi nel vertice europeo di giovedì.
Non c’è solo questa ragione, dietro la freddezza dell’Italia. Il governo è anche poco propenso a offrire garanzie pro quota sul rimborso delle riserve – almeno 20 miliardi di euro – se una sentenza di un tribunale internazionale o la fine delle sanzioni obbligasse il Belgio a rifondere la Russia (gran parte dei beni di Mosca si trova proprio in Belgio). A Roma è reale la preoccupazione che queste garanzie abbiano un effetto deleterio sui conti pubblici, proprio ora che il governo sta uscendo dalla procedura per deficit eccessivo a Bruxelles. Il problema sembra aggirabile: già durante il Covid scattarono garanzie da oltre 200 miliardi di euro per il credito alle imprese; ma non ci fu quasi alcun impatto su deficit e debito pubblico, perché la grandissima parte delle imprese non è mai fallita e le garanzie sono state attivate solo in minima parte. Questo schema si potrebbe replicare.
Ma la riluttanza di Giorgia Meloni sull’uso delle riserve russe resta. Al punto che l’Italia solleva altri problemi: preferirebbe che non si mobilitassero solo i 185 miliardi di euro custoditi a Bruxelles presso la piattaforma Euroclear, ma anche i circa 20 miliardi in titoli custoditi presso banche commerciali francesi, la decina di miliardi custoditi a Londra e la ventina a Tokyo (ma il governo giapponese è contrario).
Quest’ultima richiesta si presenta così complessa da suscitare il dubbio in altre capitali che l’Italia ora freni sulle riserve russe perché Donald Trump – a cui Meloni è vicina – ha reso altri piani d’investimento americani con quegli stessi fondi. Di certo Meloni non è sola a dubitare, fra i grandi Paesi europei. Anche Macron lo fa: da Parigi si sostiene che i mercati potrebbero reagire contro l’euro e il debito dei governi dell’area, se a Bruxelles si creasse il precedente della cattura dei beni sovrani di un Paese terzo.
L’Italia punta a una soluzione-ponte: l’emissione di non oltre 45 miliardi di un eurobond garantito dal bilancio europeo per far guadagnare tempo all’Ucraina, per capire cosa accade nei negoziati di pace. Ma la Germania, che vuole mobilitare le riserve russe, vede il ricorso a nuovo debito pubblico europeo come fumo negli occhi a causa dell’ascesa nei sondaggi degli antieuropei di Alternative für Deutschland.
Così l’Europa è in un Comma 22 in cui tutti condividono l’obiettivo – aiutare l’Ucraina – ma ciascuno blocca gli altri nel farlo. E tutti sperano che l’emissario di Trump Steve Witkoff, così disprezzato a Bruxelles, risolva loro il problema raggiungendo una tregua entro giovedì.