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 2025  dicembre 16 Martedì calendario

Sui territori è stallo. Zelensky insiste: serve un referendum

Lo «schema di Berlino» poggia su una pre-condizione: il cessate il fuoco. Stop ai bombardamenti e via alla trattativa tra Kiev e Mosca. Su questo punto, ha specificato il cancelliere tedesco Friedrich Merz, sono tutti d’accordo: Volodymyr Zelensky, gli inviati americani Jared Kushner e Steve Witkoff, nonché gli europei. Era la richiesta che alcuni leader del Vecchio Continente, a cominciare da Merz, avevano rivolto a Donald Trump, nella trasferta alla Casa Bianca, il 18 agosto scorso. Tre giorni prima il presidente degli Stati Uniti aveva cercato di convincere Vladimir Putin ad accettare una tregua. Alla fine, però, era stato Trump a cambiare idea. Mosca, invece, conferma la sua linea. Ieri il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, è stato netto: Putin è contrario «a qualsiasi trucco che punti a mettere in stallo il processo e a creare tregue artificiali e temporanee».
Ora, in via informale, diversi diplomatici europei si chiedono se Trump rispetterà l’impegno assunto nella capitale tedesca dal suo genero Kushner e dal suo amico Witkoff. Oppure se, anche stavolta, asseconderà il «niet» dei russi, spiazzando Zelensky e i partner del Vecchio Continente. Sul negoziato, quindi, pesa una doppia incognita: la risposta finale di Putin; l’atteggiamento di Trump. A queste se ne aggiunge una terza: la questione territoriale. Zelensky, per evitare incidenti diplomatici con i suscettibili interlocutori d’Oltreoceano, ha precisato che non è Trump a chiedergli di rinunciare anche a quella parte del Donbass tuttora controllata dall’esercito ucraino. I due emissari della Casa Bianca si sarebbero limitati a portare al tavolo la posizione di Putin. In realtà, da diversi giorni, non solo Witkoff e Kushner, ma anche il segretario di Stato Marco Rubio stanno facendo pressioni su Kiev: rinunciate al Donbass e in cambio vi daremo affidabili garanzie di sicurezza, oltre a molti investimenti per ricostruire il Paese.
Zelensky ha ripetuto anche a Berlino che non può accettare di regalare alla Russia una porzione di terra difesa fino allo stremo dai suoi soldati: è la striscia più fortificata del Paese, una sorta di «linea Maginot», con tutte le implicazioni politiche e psicologiche che questo comporta. È il discrimine tra la disfatta e un accordo vissuto come contenimento del danno. Quindi, ha detto Zelensky a Witkoff e Kushner, solo la popolazione ucraina può decidere, con un referendum o le elezioni. I due americani hanno preso nota, insoddisfatti.
Non è finita, però. Le diplomazie sono già proiettate in avanti. Quale potrebbe essere la soluzione? L’ipotesi più quotata resta quella di creare una «buffer zone», un’area cuscinetto demilitarizzata a ridosso del fronte nel Donbass. Sì, ma quanto dovrebbe essere grande? I russi pretendono che i soldati ucraini lascino una regione più o meno estesa quanto la Liguria. Witkoff e Kushner suggeriscono di trasformare l’area contesa in una «Economic free zone». Finora, né gli ucraini, né gli europei hanno capito che cosa abbiano in mente i due collaboratori di Trump. Una zona franca, esentasse, con poche regole per favorire lo sviluppo dell’economia? Una specie di repubblica autonoma, una Macao o un’Avana pre-castrista da costruire sulle macerie e le miniere abbandonate? Chi sarebbe in grado di realizzare una simile impresa? Con quali fondi? Oppure, ed è il timore dei negoziatori ucraini, quello spicchio di Donbass diventerebbe una landa abbandonata, una terra di nessuno, sorvegliata dai droni e a distanza dai militari? Da oggi in avanti, gli ucraini, gli europei e, si spera, gli americani si confronteranno, mappe alla mano, sulle prospettive di questo territorio. Sempre che Putin si accontenti.