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 2025  dicembre 15 Lunedì calendario

Grokipedia, l’enciclopedia che distrugge la conoscenza

Quando il francescano Vincenzo Maria Coronelli pubblicò a Venezia la sua Biblioteca universale sacro-profana alla fine del Seicento, non stava semplicemente compilando un repertorio di saperi: stava immaginando l’ordine possibile del mondo. L’impulso era quello di chi, davanti alla proliferazione delle conoscenze, avverte la necessità di un atlante mentale capace di orientare l’uomo in un universo improvvisamente più vasto. Lo stesso spirito animò, un secolo più tardi, l’impresa di Diderot e d’Alembert: l’Encyclopédie non era solo un deposito di nozioni, ma un manifesto culturale, un invito alla fiducia nella discussione pubblica, nel coraggio di porre domande nuove. Ogni epoca, in fondo, costruisce la propria enciclopedia per dire chi è e che cosa crede della conoscenza.
È con questa memoria lunga che dovremmo guardare all’apparizione, lo scorso ottobre, di Grokipedia, la piattaforma lanciata da Elon Musk con lo scopo di essere «un passo necessario verso l’obiettivo di comprendere l’Universo». Per chi non ne ha ancora sentito parlare, si presenta come un’enciclopedia online, i cui contenuti però non sono redatti da una comunità di volontari: sono generati dal modello linguistico Grok, lo stesso che anima i chatbot di Musk.
Grokipedia nasce dichiarando di volersi porre come alternativa a Wikipedia, accusata di essere troppo lenta, politicizzata, filtrata. È, nelle intenzioni, una “enciclopedia IA": testi lunghi, apparentemente coerenti, prodotti da un algoritmo che imita la logica del saggio enciclopedico senza passare attraverso un autore umano identificabile.
Ma questo è solo un frammento di un paesaggio più vasto. Tra la Gen Z si diffonde ciò che il New Yorker ha chiamato posting zero: non si posta più, si scrolla. I social, nati come luoghi dell’"uomo in connessione”, sono diventati corridoi di passività, fiumi di contenuti senza paternità. Ed è proprio mentre l’io si ritira che arrivano piattaforme pensate per sostituirlo del tutto. Sora di OpenAI, utilizzata da un milione di utenti in cinque giorni, genera video in pochi secondi; Vibes di Meta riempie automaticamente il tuo feed con contenuti creati dall’intelligenza artificiale. Non ti chiedono più di esprimerti, ma di lasciarti attraversare da un flusso anonimo. In questo regime della visibilità tutto può accadere, anche “resuscitare” attori come Robin Williams con voce e volto intatti. L’identità digitale diventa un materiale sintetico, plasmabile all’infinito. Il futuro dei social appare sempre più come un universo popolato non da persone, ma da contenuti, dove la presenza umana è del tutto opzionale. Sarà così anche il futuro della conoscenza?
L’arrivo di Grokipedia è un sintomo tellurico che ci costringe a riformulare alcune domande fondamentali sul sapere, su come lo costruiamo e su come lo condividiamo. Wikipedia, nel bene e nel male, è stata per oltre vent’anni una straordinaria macchina culturale, un laboratorio vivo dove la conoscenza non era solo accumulata ma continuamente discussa, limata, contraddetta, ricucita. Certo, un’utopia concreta, un dispositivo che tiene insieme due tensioni decisive: da un lato l’apertura radicale al contributo di tutti, dall’altro la ricerca, sempre fragile, di una neutralità possibile. La sua architettura aperta ha incarnato la convinzione che il sapere, per essere vivo, debba essere attraversato da molte mani e molte menti. È un’idea semplice e rivoluzionaria: il sapere non è un oggetto finito, ma un processo in cui la comunità stessa diventa intelligenza collettiva.
Grokipedia rovescia improvvisamente l’assunto. Non più un’enciclopedia scritta dagli umani, ma prodotta da un modello linguistico che rielabora enormi quantità di dati per restituire contenuti già confezionati. Non una comunità che costruisce, ma un algoritmo che genera. Non un luogo dove si discute, ma un luogo dove si consuma. L’epistemologia dell’IA tende a essere liscia, levigata, priva di conflitti visibili: le contraddizioni vengono assorbite, semplificate o aggregate in un testo che appare coerente anche quando non lo è. La discussione – cuore pulsante del sapere – viene automatizzata fino a scomparire.
La differenza, dunque, non è soltanto tecnica. È antropologica. Wikipedia nasce dalla convinzione che ciascuno, con le proprie competenze e i propri limiti, possa lasciare una traccia. Il suo avviso “modifica questa voce” è una dichiarazione di fiducia nel lettore: il sapere appartiene a chi lo usa e l’autorevolezza emerge da una comunità plurale, talvolta litigiosa, ma trasparente. Si può vedere chi ha modificato cosa, quando e perché; si può contestare, integrare, riscrivere. Non è un sistema perfetto: la neutralità resta un ideale e l’errore è sempre possibile.
Grokipedia, al contrario, offre un sapere già ready made: non si costruisce, si riceve. E dietro il testo c’è un unico soggetto algoritmico la cui logica resta invisibile. Se Wikipedia è una piazza, Grokipedia è un teatro: ci si siede, si guarda, e ciò che accade è già stato deciso altrove. La sfida culturale è evidente: la scomparsa dell’io e quella del noi non sono fenomeni separati. I social diventano flussi impersonali; le identità digitali si dissolvono in immagini sintetiche; e ora il sapere si offre in forma di prodotto anonimo, senza autori e senza comunità. Un’enciclopedia generata da un algoritmo riflette un mondo in cui la conoscenza non è più un bene comune ma un servizio, un contenuto da erogare, un’esperienza senza responsabilità. E quando una società delega completamente la costruzione del sapere, rinuncia in qualche modo anche alla propria capacità di immaginarlo.
Ogni epoca costruendo la propria enciclopedia dice chi è. Grokipedia ci dice che stiamo immaginando un mondo in cui la cultura può essere generata senza persone e consumata senza confronto. È un avvertimento. Se accettiamo che il sapere diventi un flusso anonimo prodotto da sistemi opachi, perdiamo la trama che ci tiene insieme. La sola condizione perché la conoscenza resti viva, plurale, umana, è che qualcuno continui a esporsi, a discutere, a lasciare tracce visibili. Che qualcuno, da qualche parte, continui ad avere il coraggio di dire “io” e di dire “noi”.