La Lettura, 14 dicembre 2025
Ri-faraonizzazione. L’Egitto di al-Sisi
Dal faraone socialista, che settant’anni fa stava in mezzo al popolo del Cairo, a quello elitario odierno sulla piana di Giza all’entrata del nuovo Grande museo egizio: gli spostamenti della statua di Ramses II raccontano bene l’evoluzione del potere nell’era di Abdel Fattah al-Sisi. Il gigante di granito rosso alto 11 metri, 83 tonnellate di peso, scolpito oltre 3.200 anni fa, dopo la scoperta nel 1820 era rimasto a giacere spezzato in sei tronconi nella zona dell’antica Menfi. Soltanto nel 1955 – settant’anni fa appunto – Gamal Abdel Nasser lo volle restaurare per erigerlo nel mezzo del piazzale della stazione ferroviaria, da allora ribattezzata piazza Ramses.
Da quel momento il mito delle dinastie faraoniche ha sempre fatto da puntello e legittimazione ideologica ai difensori dello Stato laico, sostenuto dai militari, nemici acerrimi dei Fratelli Musulmani e di qualsiasi movimento o partito che esaltasse l’anima islamica del Paese. Nasser, il presidente venerato come un semidio, il leader che traghettò l’Egitto dalla sottomissione agli inglesi al ruolo di Paese-guida verso la decolonizzazione e la lotta per le libertà in quello che allora veniva chiamato Terzo Mondo, volle però un faraone accessibile. «La scelta di mettere Ramses in uno dei quartieri più frequentati della capitale era lo specchio della visione di Nasser. Il faraone stava su un piedistallo alto tre metri, visibile a tutti, ma non idolatrato: anzi, in verità era umanizzato, proletarizzato al ruolo di vigile nel mezzo del traffico sempre più inquinante e caotico del Cairo», ci spiega il celebre politologo francese Gilles Kepel, che proprio al radicalismo islamico egiziano dedicò i suoi primi studi mezzo secolo fa.
Dunque: da una parte uno statalismo accentratore, pronto a presentarsi come il logico prosecutore della civiltà cresciuta lungo il Nilo oltre 5 mila anni fa; di fronte la teocrazia pan-islamica alimentata dagli imam di migliaia di moschee sparse in ogni regione e dai teologi musulmani dell’università cairota di al-Azhar. Sono queste le due forze principali che si confrontano in Egitto da oltre un secolo.
Nella versione di al-Sisi il conflitto tra il nazionalismo delle piramidi e la religione delle moschee si fa ancora più duro. «Assistiamo alla radicale rifaraonizzazione dell’Egitto. Già il Museo nazionale della Civiltà egiziana, inaugurato nel 2021, presentava la storia del Paese come una logica sequela di eventi che dai regni dell’antichità arriva all’impero del super faraone al-Sisi. Ma adesso il nuovo Grande museo ne rappresenta l’apoteosi totalitaria. Ci aveva parzialmente provato anche Anwar Sadat, che però cercava di tenere un piede nella scarpa dell’islam. Per quasi un trentennio Hosni Mubarak aveva poi timidamente enfatizzato il ruolo dei militari contro i jihadisti (che avevano assassinato il suo predecessore nel 1981). Con al-Sisi cade qualsiasi remora: così il Ramses socialista lascia la piazza della stazione e cambia casa, sale di rango, viene messo dove stanno le élite locali e i turisti stranieri, diventa la sentinella e il garante di questo nuovo Egitto dominato dalla cerchia dei fedelissimi del regime», aggiunge Kepel.
Per spiegare un’azione culturale e propagandistica tanto forte e decisa occorre tenere a mente i gravissimi problemi dell’Egitto. Dalla morte di Nasser nel 1970, dopo il trauma della sconfitta contro Israele nel 1967, la sua popolazione è triplicata fino a sfiorare i 110 milioni di abitanti. Tra questi oltre il 30 per cento ha meno di 15 anni. La realtà urbana del Cairo è in larga parte fuori controllo, come lo sono altre megalopoli affette da una crescita selvaggia (per esempio Karachi in Pakistan o Dacca in Bangladesh). Il problema resta lungo il corso del Nilo, dove vive concentrata quasi tutta la popolazione con una media di circa duemila abitanti per chilometro quadrato, uno dei tassi di densità più alti al mondo.
Le massicce opere di canalizzazione non cancellano il fatto che circa il 95 per cento del territorio nazionale sia dominato dal deserto e l’agricoltura resti relegata più o meno agli stessi terreni che venivano coltivati due millenni fa. L’economia rimane in larga parte controllata dallo Stato e le industrie legate all’apparato militare sono ancora trainanti rispetto alle imprese private. Non va neppure dimenticato che poco meno di due anni fa il Paese ha subito una delle peggiori crisi finanziarie dell’ultimo quindicennio e le casse dello Stato hanno potuto sopravvivere soltanto grazie alle massicce iniezioni di capitali arrivate dal Fondo monetario internazionale, dalla Banca mondiale, dall’Unione europea e soprattutto da Arabia Saudita ed Emirati.
Ma il tallone d’Achille del regime sta nell’origine violenta del suo incipit. Al-Sisi assurge infatti ai vertici dell’esercito in seguito alla grave destabilizzazione seguita alle rivolte della «primavera araba» del 2011. Allora le folle di giovani egiziani, soprattutto gli studenti e i figli delle famiglie ex contadine di recente urbanizzazione nella capitale, scesero a manifestare nelle strade e denunciarono la «corruzione inefficiente» del governo Mubarak. Piazza Tahrir divenne il simbolo della riscossa.
Come già in Tunisia poche settimane prima, i rapporti di forza cambiarono quando l’esercito e gli apparati di sicurezza decisero di passare dalla parte dei rivoltosi. È il momento delle grandi speranze: sembra che tutto il Medio Oriente stia voltando pagina per abbandonare le dittature figlie della decolonizzazione e diventare democratico. Le elezioni del 2012 sono considerate «le più libere e prive di brogli» nella storia del Paese. Ma i risultati contraddicono le speranze delle componenti liberali delle rivolte e vedono la vittoria del fronte legato ai Fratelli Musulmani guidato da Mohamed Morsi. L’Egitto profondo, quello dei fellahin nelle campagne, rivela il suo reale volto conservatore e religioso. Morsi diventa presidente il 24 giugno. Ma subito l’esercito e larga parte della gigantesca burocrazia statale radicata nelle istituzioni, che sin dall’epoca monarchica guidano il Paese, contrappongono una determinata opposizione.
Tutto sembra inceppato: rallentano i trasporti, si bloccano i porti, manca la benzina, sparisce la merce dai supermercati, polizia e sicurezza sono allentate, negli uffici prevale l’assenteismo. Morsi corre ai ripari, elegge i militanti islamici al posto dei vecchi funzionari, ma serve tempo per imparare il nuovo lavoro. Pochi collaborano. I tribunali sono paralizzati. Il nuovo governo vorrebbe imporre la Sharia, le legge coranica. L’economia è in caduta libera. La Chiesa copta, da sempre puntello delle dittature laiche, teme la discriminazione da parte dei gruppi islamici e paventa il progetto di cambiare la carta costituzionale. I Fratelli Musulmani cercano allora di impadronirsi dell’esercito, che fa quadrato: cresce una sorta di guerra civile strisciante. È allora che al-Sisi diventa capo di Stato maggiore e ministro della Difesa. All’inizio sembra andare d’accordo con Morsi. Ma è il classico cavallo di Troia: il 3 luglio 2013 il generale guida il colpo di Stato sostenuto da un vasto movimento di rivolta popolare, la polizia uccide miglia di islamici. Con lui si schiera gran parte di quegli intellettuali e militanti che due anni prima aveva invaso piazza Tahrir. «Abbiamo vissuto un periodo turbolento di illusioni sbagliate. All’inizio sono stato con la primavera araba; poi ho avuto paura di Morsi e ho sostenuto al-Sisi, credevo che ci avrebbe salvato dall’involuzione fondamentalista degli islamici, che volevano imporre il velo alle donne e farci ricadere nel medioevo. Lo confesso, ho visto nei generali golpisti la nostra unica salvezza. È stato un altro clamoroso errore. Tempo due o tre anni, al-Sisi è diventato un dittatore peggio di Nasser o Mubarak. Se non fossi scappato negli Stati Uniti, oggi sarei in carcere o forse già assassinato», ci ha confessato lo scrittore cairota Ala’ al-Aswani, che nei libri denuncia la deriva della dittatura militare e negli ultimi anni è stato messo al bando nel Paese.
«Al-Sisi è riuscito comunque a rimettere in piedi l’economia lanciando un’ampia campagna di opere pubbliche – dall’inaugurazione della nuova capitale 45 chilometri a est del Cairo al raddoppio del Canale di Suez, sino al museo – e la costruzione di una diffusa classe dirigente legata personalmente a lui», sostiene Alessia Melcangi, esperta di Medio Oriente che ha pubblicato una storia della Chiesa copta. C’è però un’acuminata spada di Damocle che pende sul futuro del Paese e ne minaccia l’esistenza. «Uno dei crucci maggiori del presidente e dei suoi generali resta questo: non essere riusciti a bloccare la costruzione della diga sul Nilo Azzurro da parte del governo etiope. Al momento il flusso del fiume è regolare grazie alle forti piogge. Ma sarebbe sufficiente una stagione di siccità per alzare l’asticella del pericolo di un aperto conflitto armato», dice ancora. Per ora al-Sisi si limita a ripetere che il suo esercito è pronto a «qualsiasi mossa» se venisse tagliata la portata del Nilo. «La nostra acqua non si tocca», dichiara.
Anche la nuova capitale, inaugurata in pompa magna l’8 novembre, pur se costruita rispettando i tempi e già parzialmente attiva, potrebbe causare malumori. I prezzi sono troppo alti anche per le classi medie. Si sperava potesse ospitare fino a 6,5 milioni di persone ma al momento i suoi ampi viali, i giardini, il lusso di piazze, ville e palazzi, costruiti su standard dettati dai finanziatori dei Paesi del Golfo, stanno marcando l’enorme divario tra i circoli esclusivi delle élite e la stragrande maggioranza degli egiziani.
Tra i punti fermi del governo continua a prevalere l’ostilità verso Hamas e la granitica decisione di impedire alle masse palestinesi di Gaza di entrare nel Sinai egiziano. Il motivo è evidente: Hamas è storicamente legata ai gruppi più estremisti dei Fratelli Musulmani, ha goduto un momento di simpatia con Morsi, ma agli occhi di al-Sisi rappresenta un pericolo mortale. Il presidente su questo punto persegue la stessa politica di Sadat, che già a metà degli anni Settanta abbandonò l’alleanza con Mosca a favore di quella con Washington. «Il meccanismo non cambia. Al-Sisi dice agli alleati: sostenetemi, se l’Egitto crolla si sfascia l’intero Medio Oriente», sottolinea Kepel. Trump non è più pronto a pagare come prima facevano Obama, Bush o Clinton. Da qui il ruolo centrale di Riad e degli Emirati, che però oggi sono meno disposti ad aprire i cordoni della borsa. Così al-Sisi gioca su due sponde: segnala a Israele e agli Stati Uniti che l’Egitto è fondamentale per controllare Gaza e l’estremismo islamico, ma non vuole mandare le sue truppe nella Striscia e farà di tutto per tenere ermeticamente chiuso il passaggio per il Sinai.