Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  dicembre 14 Domenica calendario

I love Tutankhamon

Non c’è dubbio: Tutankhamon e Nefertiti sono come la Gioconda di Leonardo e la Venere di Botticelli. Sono custodi eccellenti di misteri insondabili e immortali, oggetto di una passione senza tempo che aspetta «solo» un’altra occasione per ravvivarsi – e quale migliore occasione dell’apertura di un nuovo museo come il Grand Egyptian di Giza, nell’area metropolitana del Cairo, il più grande del mondo, finalmente inaugurato un mese fa dopo vent’anni di lavori e un miliardo di dollari di investimenti?
In realtà, nonostante il ruolo ormai certificato di icone, Tutankhamon e Nefertiti non sono altro che frammenti di un fenomeno globale, l’egittomania, che ha attraversato e ancora attraversa la storia e la cultura in (quasi) tutte le espressioni e che prosaicamente lega il festival della canzone per bambini, lo Zecchino d’oro («Due galline faraone che studiavano la storia/ Quella dell’antico Egitto la sapevan/ la sapevano a memoria/ Ammirando i faraoni e le loro costruzioni/ Cominciarono a sognare e cantarono/ e cantarono così», La piramide, 1981) alla Lady Macbeth del distretto di Mcensk (1934) di Dmitrij Šostakovic che ha appena inaugurato la stagione lirica della Scala di Milano («Il poliziotto è un’antica istituzione/ C’era già ai tempi degli egizi»: canta il sergente nel settimo quadro del terzo atto).
Tarek Tawfik, docente di Egittologia all’università del Cairo, già direttore generale (dal 2014 al 2019) del Progetto del Gem (il Grand Egyptian Museum), è presidente dell’associazione internazionale di egittologia; Christian Greco è direttore del Museo Egizio di Torino e presidente del Cipeg, il comitato internazionale Icom per l’egittologia. A loro, riuniti a Parigi per un summit sul futuro dei musei, «la Lettura» ha chiesto di analizzare le ragioni di un’egittomania che non conosce tregua.
«Credo che l’aspetto più affascinante della civiltà dei faraoni – spiega Greco – sia il fatto che i suoi resti sembrano trascendere il tempo, sconfiggere la morte, mirare all’eternità: tutti desideri che condividiamo come esseri umani. Questo è certamente dovuto alla sopravvivenza di numerosi grandi monumenti, ma anche all’importanza che gli Egizi attribuivano al concetto di memoria. “L’uomo decade, il suo corpo è polvere, tutti i suoi parenti sono scomparsi, ma un testo lo ricorda attraverso la bocca di chi lo recita” appuntò uno scriba egizio 3.500 anni fa. Essere ricordati è un desiderio condiviso da tutti gli Antichi Egizi – sovrani, contadini, operai. Di fronte alla morte poco è cambiato da allora».
L’Antico Egitto è così contemporaneo che online vanno a ruba le magliette (prezzo medio 17 euro) con la scritta I love King Tutankhamon, con la maschera del faraone bambino, con l’occhio di Horo e con ogni possibile variazione sul tema dei geroglifici. «L’Antico Egitto, con la ricchezza dei suoi reperti archeologici, appartiene al presente perché è studiato, visitato e apprezzato ogni giorno – è l’opinione di Tawfik —. Le piramidi di Saqqara, Dahshur e Giza non solo dimostrano l’antica capacità di realizzare opere colossali, ma definiscono ancora il paesaggio egiziano stesso, dal punto di vista geografico e culturale».
Arte, religione, storia: quale dimensione ha più contribuito a mantenere viva questa passione? Greco: «Difficile separare. Il legame tra arte, religione e storia è una caratteristica tipica dell’Antico Egitto». Tawfik: «Questa apparente uniformità di arte e architettura ha contribuito a rafforzare l’immagine dell’Antico Egitto, perché ogni singolo oggetto sembra fare parte di un unicum. La maschera funeraria di Tutankhamon è la materializzazione di queste connessioni – la bellezza e la ricchezza della maschera, la storia e il potere del faraone, la divina convinzione che l’oro simboleggiasse la carne immortale degli dei».
Ma se l’Antico Egitto appare, nell’immaginario comune, come un universo orientato all’aldilà, perché, allora, continua ad affascinare un mondo contemporaneo così concentrato sull’aldiquà? «Tutto il contrario – assicura Greco —. Gli Egizi vivevano la vita cercando di ricrearla anche nell’aldilà. La percezione di una cultura rivolta alla morte si deve per buona parte al fatto che gran parte dei resti archeologici riguarda tombe e monumenti dedicati ai defunti». Tawfik, a sua volta, precisa: «Gli Antichi Egizi amavano e gioivano della vita: le pareti delle tombe private del Nuovo Regno sono spesso decorate con scene di riunioni familiari, interni domestici, paesaggi lussureggianti lungo il fiume. La loro vita era generalmente più breve della nostra: l’età media si aggirava intorno ai 35 anni per gli uomini, meno per le donne, spesso a causa delle complicazioni legate al parto. Vita e morte facevano parte di un ciclo, come notte e giorno, come le inondazioni annuali del Nilo». Per entrambi gli studiosi, dunque, gli Egizi «cercavano di catturare il presente per trasformarlo in futuro nell’aldilà».
La passione per l’Antico Egitto ha inondato la narrativa, le arti, il cinema... Pensiamo a Indiana Jones... Questa spettacolarizzazione ha aiutato la comprensione scientifica della società dei faraoni o l’ha trasformata in una leggenda? «Esplorare e investigare sono state le premesse dell’archeologia – dice Greco —. Indubbiamente, le prime investigazioni di viaggiatori ed esploratori occidentali, in un’epoca in cui i viaggi erano rischiosi e complicati, portavano con sé un elemento di avventura che catturava l’immaginazione di lettori e studiosi, ma con il tempo le indagini sui siti archeologici sono diventate sistematiche». Secondo Tawfik «grandi imprese richiedono buoni capi, ma per fortuna abbiamo iniziato a riscoprire, accanto ai grandi archeologi che hanno fatto la storia, anche il ruolo di chi lavorava dietro le quinte, del personale addetto agli scavi, di uomini e anche di bambini che hanno contribuito a portare alla luce scoperte di cui oggi godiamo».
Quando nasce questa passione per gli Egizi? Christian Greco: «Da sempre, fin dall’antichità, si è alimentata una grande ammirazione per l’Egitto. Né Erodoto né Platone avevano una percezione della sua età reale, ma ne riconoscevano l’importanza. Diversi filosofi greci, tra i quali Talete e Pitagora, si suppone che abbiano trascorso una parte della loro vita in Egitto; indipendentemente dalla verità, questo mostra quanto l’Egitto fosse percepito come una civiltà di primo piano nel Mediterraneo antico. La continuità si perde in epoca ellenistica e romana, quando i geroglifici erano appresi e compresi solo dai sacerdoti dei culti antichi. L’Egitto divenne silenzioso, aprendo una lunga stagione di mistero e di oscurità». Tarek Tawfik: «L’interpretazione della Stele di Rosetta nel 1822 segnò una svolta. Champollion intuì finalmente come decifrare i geroglifici, anche se la storia del decriptamento inizia molto prima, con il contributo di studiosi europei e arabi. Ma a partire dal 1822 fu possibile leggere, dopo quasi 14 secoli, le scritture degli Antichi Egizi e intravedere i loro pensieri. Questo evento è considerato l’inizio dell’egittologia moderna».
Ma ci sono stati anche momenti di crisi, in cui l’interesse per l’antico Egitto si è affievolito o è scomparso... «Quando nel IV secolo d. C. furono chiuse tombe e templi egizi – racconta Greco – la maggior parte delle popolazioni lungo la Valle del Nilo parlava una lingua evoluta, diversa dall’antico egizio. Un capitolo si era chiuso e i contenuti dei testi divennero inaccessibili. Nei secoli successivi, soprattutto dopo la conquista araba, i viaggi tra le sponde del Mediterraneo si fecero difficili e l’egittologia europea s’indebolì. La grande svolta arrivò con l’expédition di Napoleone, il cui resoconto, Description de l’Égypte, rappresentò un punto di svolta». Concorda Tawfik: «Nonostante l’interesse per i reperti egizi in effetti non sia mai sparito, eventi come la spedizione napoleonica e le guerre del XIX secolo influenzarono significativamente l’immagine e la tutela del patrimonio. La Description è stata una pietra miliare e ha portato alla prima legge egiziana per la protezione dei beni archeologici, nel 1813, ma ha segnato anche l’inizio di lotte politiche tra Francia e Gran Bretagna. La divisione dei reperti, il sistema del partage, della spartizione, provocò problemi che furono affrontati solo nel 1983, quando l’Egitto iniziò a riprendere il pieno controllo del proprio patrimonio. Il Gem rappresenta un’ulteriore tappa di questa evoluzione».
Il Museo Egizio di Torino ha da poco presentato una nuova esposizione digitale che permette ai visitatori di entrare virtualmente nella tomba di Kha e Merit. Perché, direttore Greco, questa tomba è così importante? «Perché nella tomba, rimasta intatta fino al 1906 quando fu scoperta da Ernesto Schiaparelli, all’epoca direttore del Museo Egizio, gli oggetti di Kha e Merit sono stati ritrovati insieme, cosa rara nelle tombe scoperte in passato, offrendo una visione completa della loro sepoltura». Allo stesso modo, perché professor Tawfik è importante quella di Tutankhamon: «La tomba di Tutankhamon è una delle due tombe reali quasi intatte. La sua sepoltura era modesta ma conteneva migliaia di oggetti. Immaginate cosa poteva celarsi nelle tombe più grandi e ricche di faraoni come Amenhotep III, Seti I o Ramses II? Furono tutte saccheggiate, probabilmente subito dopo il declino del Nuovo Regno. La scoperta, nel 1922, della mummia di Tutankhamon, resta uno dei punti chiave dell’egittologia» (al centenario dell’evento e al bicentenario della decifrazione della Stele di Rosetta «la Lettura» # 558 del 7 agosto 2022 ha dedicato diverse pagine).
I reperti dell’Antico Egitto sono sparsi in tutto il mondo. Alcuni musei – nelle pagine che seguono ne pubblichiamo una mappa – ospitano grandi collezioni (il Met di New York, il Louvre di Parigi, il British Museum di Londra, l’Archeologico di Firenze e quello di Napoli), altri accolgono più piccoli e spesso sconosciuti (ma sorprendenti) reperti. In Egitto, ad esempio, non c’è solo il nuovo Gem: c’è il museo di piazza Tahrir, la «casa originale» del patrimonio dell’Antico Egitto con la statua di Djoser, di Rahotep e Nofret, il mastaba di Hesy-ra e il tesoro di Tanis, per Tawfik «la culla di tutte le collezioni egizie». Altrettanto sorprendente al Cairo è l’Emc, dove le antichità faraoniche dialogano con oggetti di epoca cristiana e islamica, dimostrando il continuum culturale e scongiurando divisioni artificiali nella storia del Paese. Ma l’apertura del Gem (dal quale l’Egitto si aspetta turisti e denari) di fronte alle piramidi oscurerà tutto questo? «Il Gem segna una svolta fondamentale – dice Tawfik – perché per la prima volta dispone di spazi adeguati per esporre un vasto numero di oggetti. Ma in tutto l’Egitto si allestiscono musei locali e regionali, con l’obiettivo di mantenere i reperti vicini ai luoghi di provenienza e rafforzare i rapporti con le comunità locali».
Impossibile non concludere con il tasto che associa l’Antico Egitto e la sua cultura a ogni possibile idea di superstizione (maledizioni di faraoni comprese)... Su questo Greco e Tawfik concordano: «Il fatto che per secoli i geroglifici siano rimasti indecifrabili ha alimentato il mistero. Molti aspetti della religione erano riservati a élite sacerdotali, e questa segretezza ha contribuito a creare un’ulteriore aura di mistero. Tuttavia, bisogna evitare di associare l’Antico Egitto a occulto o occultismo. Sono piuttosto proiezioni moderne, riflesso di un bisogno contemporaneo di mistero e fascino, che poco hanno a che fare con il reale patrimonio storico e culturale dell’Antico Egitto». Ma che confermano, se ce ne fosse bisogno, la contemporaneità dell’amorosa passione per i faraoni. I love Tutankhamon.