Corriere della Sera, 15 dicembre 2025
Intervista a Flavia Pennetta
Prima di stampare le labbra sull’Open Usa, prima di sublimare il desiderio di maternità con i tre set meglio riusciti della sua carriera – Federico, Farah e Flaminia, nati dall’unione con Fabio Fognini —, Flavia Pennetta da Brindisi, classe 1982, è stata la prima giocatrice di tennis italiana a superare le colonne d’Ercole della top 10 della classifica mondiale dall’invenzione del ranking Wta. Una piccola rivoluzione al femminile realizzata quando Jannik Sinner compiva otto anni d’età ed era ancora convinto, da grande, di voler fare lo sciatore. Correva il 17 agosto 2009: Pennetta from Italy n. 10. Addirittura n. 6 nell’autunno del trionfo Slam (2015). Ma è aver calpestato per prima un territorio inesplorato che fa di Flavia, celebrata nel decennale da un docufilm di Sky Sport, una pioniera. Cominciamo da qui.
Perché il traguardo delle prime dieci fu importante?
«Ho rotto un muro, per tutte le italiane: non è un caso se, da lì in poi, noi ragazze abbiamo aperto un ciclo. Se l’ha fatto Flavia possiamo farcela anche noi, fu il messaggio. Un po’ l’effetto che Sinner sta avendo oggi sugli uomini. Però quel muro, al maschile, l’ha rotto Fabio, mio marito, non Jannik».
Che bambina è stata, in Puglia?
«Iperattiva, molto poco paurosa. Testa durissima: di ogni cosa chiedevo il perché. A 6 anni partivo in direzione scuola con una cartella gigante in spalla, mano nella mano con il mio amico Alberto. Ne abbiamo combinate di ogni».
Racconti una malefatta.
«Passavamo le giornate nel cortile della casa di Brindisi, tra bici, pallone e racchette. Ci era proibito uscire: appena fuori c’era uno stradone in discesa, molto trafficato. Con Alberto decidemmo di osare, facendo una gara a tempo: vinceva chi ci metteva meno ad arrivare in bici al curvone della spazzatura. Mi lancio giù a duemila, parte Alberto. Ma arriva il bus, lo supera e lo spostamento d’aria lo fa cadere. Ho pensato: oddio, è morto. Si rialza che è una maschera di sangue. Provai a ripulirlo ma era conciato troppo male. Al ritorno mamma e nonna mi fecero un cazziatone epico. Bici vietata per due mesi».
È vero che suo padre Oronzo voleva un maschio?
«Verissimo. L’ecografia non usava e il ginecologo, che era presidente del circolo del tennis, rassicurò papà: tranquillo Oronzo, sarà maschio. Quando sono nata ha fatto una scenata: mannaggia alla miseria, come è possibile! Anche mio nonno avrebbe voluto un maschio, invece arrivarono due femmine e quattro nipotine. Però non ho mai percepito un’aspettativa delusa. Da ragazzina dissi a mio padre: tranquillo, ti darò più soddisfazioni di un maschietto».
Avrebbe potuto vincere più di undici titoli?
«Ho attraversato un’epoca di giocatrici pazzesche, come ha fatto Fabio, che ha dovuto scontrarsi con Federer, Nadal e Djokovic, i migliori. Ci ho messo il mio tempo per raggiungere la convinzione di essere all’altezza della generazione di Serena Williams: il picco l’ho avuto alla fine».
C’era un po’ di sindrome dell’impostore?
«Non credo: il campo di partecipazione ai tornei era galattico. Non mi sono mai mentita: le altre erano superiori. C’era una differenza oggettiva. Mi arrovellavo: come posso migliorare e batterle?».
E poi, sul più bello, la sua amica d’infanzia Roberta Vinci fa fuori Serena, la più forte di tutte, a New York.
«Vede il destino? La Williams tremò davanti alla prospettiva del Grande Slam e Roberta fu brava ad approfittarne. Serena la soffrivi già in spogliatoio, vedendola cambiarsi. Che personalità! Aveva un servizio disarmante, la sua risposta ti bucava. Una fisicità sovrastante. Tu tiravi forte? E lei di più. Ma quella che mi mandava ai matti era Ana Ivanovic: non capivo dove cavolo tirava. Questa cosa mi infastidisce ancora oggi...».
Certo che l’Us Open 2015 sembra un film.
«Roberta che elimina Serena e io che batto Roberta. Il caffé insieme prima della finale, l’abbraccio a rete. Nemmeno a scriverlo, veniva un film così bello».
Il 12 settembre, nel decennale della vittoria, lei e la Vinci avete ripreso il caffè insieme?
«Ogni anno, in quella data, se non riusciamo a vederci, ci sentiamo. Lei mi punzecchia: hai vinto grazie a me! È un aggancio di anime che ci legherà per sempre. Abbiamo vissuto momenti non solo di sport, ma di storia italiana».
Però la fierezza di aver abbattuto il muro delle top 10 è maggiore.
«Beh, quel traguardo mi dà un brivido particolare. Si creò l’occasione, la presi. Il mio sogno di bambina era diventare la più forte d’Italia, non del mondo. Ma non ci sono andata lontana».
Fabio Fognini è in finale a Ballando con le Stelle, su Raiuno: è contenta che il pubblico lo stia scoprendo?
«Felice! La giuria se lo aspettava litigioso e imbronciato, come a volte gli capitava di essere in campo. E invece è empatico, gioioso, generoso: il vero Fabio. E pensare che mio marito era l’anti-ballo: zero ritmo, negato. È entrato nel programma di Milly in pieno relax, come partisse per una vacanza: il primo ballo è andato malino, ha rosicato e gli si è accesa la scintilla della competizione. Dalla seconda serata si è messo d’impegno. Ora è magro, tiratissimo: guarda Fla, mi dice, mi sono tornati fuori gli addominali!».
Come si accorse che tra lei e Fognini non era più solo un’amicizia?
«Eravamo a Barcellona, durante la preparazione invernale 2013. Di lì a poco, in Australia, sarebbe successo il patatrac. Cosa è cambiato? Il modo di guardarci. Io all’epoca soffrivo per le sue sfuriate, per l’accanimento che c’era contro di lui. Passavamo ore a parlare: ho 5 anni di più, di me si fidava. Dalle attenzioni di Fabio, capii che era cambiato anche il mio piacere nel trascorrere il tempo insieme».
Fast forward. Siete sposati, avete tre figli, vivete a Milano.
«È già il terzo anno milanese. All’inizio soffrivo il cielo grigio, piangevo: ho sbagliato tutto! Ora ci sto bene, vedo i bimbi contenti, ho creato una mia routine e un mio nucleo. Esco poco, non frequento il jet set. Ma la città offre mille opportunità e, lavorativamente, mi ha dato una nuova vita: Sky, gli eventi, le partecipazioni, la torcia olimpica all’Olimpiade. Sono tedofora ai Giochi italiani: un grande riconoscimento. Milano, insomma, mi ha ridato un valore».
La forza di annunciare il ritiro all’apice della carriera, alzando la coppa dell’Open Usa, rimane impareggiata. A quasi 39 anni il più grande di tutti, Novak Djokovic, ha l’enorme problema di come concludere l’avventura nel tennis...
«Credo che Novak sia ancora convinto di poter battere Sinner e Alcaraz e, quindi, di poter vincere lo Slam numero 25. Sarebbe record assoluto».
Di sogni a lei ne rimangono, Flavia?
«Dirlo ad alta voce mi fa un po’ paura: no. Se avessi potuto scrivere la sceneggiatura della mia vita, l’avrei voluta esattamente così».