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 2025  dicembre 15 Lunedì calendario

Come il potere di veto mette l’Ue sotto ricatto

Se l’Europa ha deciso così lentamente sull’Ucraina e su Gaza, o non ha deciso affatto, è perché ognuno dei 27 può dire «dissento», mettendo il veto. È il meccanismo dell’unanimità. Nato con intenti nobili, per garantire ai singoli Paesi che «nulla sarà fatto contro di voi», è stato poi sostituito in tanti settori dal voto a maggioranza qualificata. Si applica però ancora in politica estera e di sicurezza, adesione alla Ue, fisco, finanze comunitarie, cittadinanza. E su temi minori. Ma per capire l’impatto e il potere del diritto di veto è utile focalizzarsi sugli anni della guerra in Ucraina.
Non esiste un registro ufficiale dei veti europei. Tuttavia, Eu Veto Tracker li cataloga dal 2011 in base a notizie verificate. Da allora ce ne sono stati 46. L’Ungheria è la più attiva: 19 in totale, di cui 12 solo dopo l’invasione russa dell’Ucraina. Vediamo i veti più dirimenti.
Maggio 2022: Budapest blocca l’embargo al petrolio russo; per levare il veto, otterrà l’esenzione per l’oleodotto Druzhba. Dicembre 2022: no ungherese sui 18 miliardi di aiuti macro-finanziari a Kiev; viene tolto dopo un compromesso sui fondi Ue bloccati a Budapest. Novembre/dicembre 2023: veto sull’Ukraine Facility da 50 miliardi; si parla apertamente di ricatto in cambio dello sblocco dei fondi di coesione; Orbán cede nel febbraio 2024. 2024: blocco o minaccia di veto sul riutilizzo dei profitti dagli asset russi; ispirerà soluzioni alternative ai funzionari Ue per neutralizzarlo. Gennaio 2025: bloccata la censura alla Bielorussia per violazione dei diritti umani. Marzo 2025: nuovo veto sugli aiuti all’Ucraina. Giugno 2025: blocco con la Slovacchia del 18° pacchetto di sanzioni contro Mosca. Settembre 2025: stop all’avvio dei negoziati con Kiev per l’ingresso nella Ue. Dicembre 2025: nella partita per usare gli asset russi fermi in Belgio, Orbán ha fatto sapere che – dovessero essere garantiti con gli eurobond – lo impedirà con il veto.
Dall’autunno 2023 Orbán ha un nuovo alleato: il filorusso Robert Fico che ha vinto le elezioni in Slovacchia. Ora i veti si combinano: la Slovacchia ha affiancato l’Ungheria due volte nei «no» alla Ue. Come scrive il think tank tedesco SWP, siamo di fronte a una vera e propria «strategia del veto», a cui l’Ungheria ricorre in modo seriale e dove la Slovacchia è il junior partner. Ma è importante comprendere il meccanismo: il veto talvolta viene tolto per ottenere il via libera ai fondi di coesione, che l’Europa blocca perché Budapest viola lo Stato di diritto (attualmente, sono fermi 18 miliardi). Altre volte per incassare vantaggi politici e economici da rivendersi in casa. In pratica un ricatto che va a vantaggio dell’aggressore russo.
Dal 2011, sono 15 i Paesi che hanno fatto ricorso al veto. Nel 2020 Cipro si oppose alle sanzioni al regime bielorusso (finché non ottenne un segnale anti-Turchia). Nel 2017 la Grecia affossò una censura alla Cina sui diritti umani: difendeva le proprie relazioni economiche con Pechino. E il paradosso è che così si favoriscono gli avversari dell’Europa. Interessante il caso polacco. In passato, Varsavia ha utilizzato il veto 7 volte. Con l’arrivo del premier europeista Donald Tusk nel 2022, la Polonia è diventata un partner affidabile di Bruxelles. Inoltre, vista la propria storia di invasioni e il diffuso sentimento antirusso, è una naturale sostenitrice di Kiev. Ora però c’è l’incognita Nawrocki, il nuovo presidente nazionalista eletto a giugno entrato in sistematico conflitto con Tusk, e nell’Est europeo le forze anti-Ue possono radicalmente cambiare i giochi a Bruxelles. Come si comporterà Andrej Babis, il miliardario anti-euro populista, appena nominato premier ceco? Finora Praga è stata un forte alleato di Kiev: ha perfino guidato una cordata in grado di procurare un milione di munizioni, quando l’Ucraina restò quasi a secco. Quello che sappiamo è che Babis ha già dichiarato le sue affinità con il blocco anti-ucraino del fronte Est.
Gli utilizzatori seriali del veto sono tra i maggiori beneficiari del trasferimento dei fondi della Ue.
L’Ungheria ha ricevuto dalla Ue tra il 2004 e il 2023 la bellezza di 68 miliardi di euro netti, che secondo le stime della Commissione hanno fatto crescere il Pil quasi del 2% all’anno. Inoltre, nel periodo 2021-27 le sono destinati 21,7 miliardi di fondi di coesione e 5,8 di sovvenzioni. E il 90% della spesa pubblica in Ungheria è fatta con fondi Ue.
Vuol dire che Orbán può usare la spesa nazionale per indirizzare le politiche a cui tiene di più. Non solo, fa pure un uso «oligarchico» di questi soldi, affidandone una parte significativa al genero István Tiborcz e all’amico Lörinc Mészáros, diventato l’uomo più ricco del Paese.
La Slovacchia, in rapporto alla popolazione, è il secondo maggior «beneficiario netto» dell’Unione: ha ottenuto 24 miliardi netti in 20 anni, con un impatto sul Pil stimato al 3% annuo. Nello stesso periodo la Repubblica Ceca ha incassato 40 miliardi di euro.
La Polonia ha un saldo netto negli stessi vent’anni di 162 miliardi. Se oggi si parla di un miracolo economico polacco, se si è rovesciato perfino il saldo migratorio – e per la prima volta più polacchi rientrano dalla Germania di quanti vi emigrino – la Polonia lo deve proprio alla riuscita integrazione europea.

L’Italia è stata sempre tra i Paesi che chiedono il superamento del diritto di veto, assieme a Germania, Francia, Spagna, Belgio, Finlandia, Olanda, Slovenia. Ed è stato invocato da tutti i presidenti della Repubblica italiana e dai suoi presidenti del Consiglio. Draghi lo ritiene propedeutico alla sua agenda. Però il 24 ottobre scorso Giorgia Meloni in Parlamento dice: «Non sono favorevole ad allargare il voto a maggioranza, in luogo dell’unanimità». E spiazza il ministro degli Esteri Tajani, vicepresidente del Ppe, che a botta calda dichiara «penso invece che si debba fare qualche passo in avanti», poi però in un’audizione alla Camera il 9 novembre si corregge e lo definisce «non all’ordine del giorno». In una recente intervista al Corriere è tornato a invocare la necessità di passare a maggioranza in molti ambiti; ma per tutta risposta FdI ha ribadito la posizione della premier. Un cambiamento che allontana l’Italia dal gruppo di Paesi che vogliono dare alla Ue più forza, e la colloca su posizioni più vicine al campo sovranista.
Sui fondi russi congelati in Belgio si decide il 18 dicembre, e il testo è costruito in modo che alcune soluzioni (ma non tutte) permettano di evitare il veto. Si deve in ogni caso superare l’opposizione del Belgio, che detiene gli asset. Ma allora – al di là delle soluzioni sul tavolo per i beni russi, che è anche una partita finanziaria – quali strumenti ci sono per una politica estera comune per superare l’unanimità? Da utilizzare subito? 1) La «passerella»: mai usata finora, prevede che il Consiglio europeo possa decidere a maggioranza, purché prima vi abbia acconsentito all’unanimità. 2) L’astensione costruttiva: fino a un terzo dei Paesi si astiene (e viene esentato dall’impegno), permettendo agli altri di agire. 3) La cooperazione rafforzata: consente a un gruppo di Paesi di portarsi avanti in alcuni settori, cooperando volontariamente. Il modello più recente è quello dei volenterosi per l’Ucraina. Che però è un’iniziativa tra governi, dove un ruolo guida ce l’ha la Gran Bretagna, assieme a Francia, Germania e Polonia. Ci sono anche dei precedenti storici. Quando si è deciso di adottare l’euro erano solo 12 Paesi, oggi sono diventati 20. Sull’abolizione delle frontiere (Schengen) erano d’accordo in 5, ora nella Ue si è estesa a 25. Ed è quello che si sta provando a fare con la difesa comune europea. L’Ucraina insegna: tenere il diritto di veto su tutta la politica estera permette a chi rema contro, e incassa fondi come da un bancomat, di fermare l’azione di tutti