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 2025  dicembre 14 Domenica calendario

Intervista a Mirko Ferretti

Amilcare “Mirko” Ferretti, giovanotto di novant’anni, è uno degli ultimi pionieri del calcio italiano, testimone orgoglioso di un’epoca leggendaria: è stato allenato da Nereo Rocco, ha frequentato la mansarda di Meroni, ha sfidato Sivori e Schiaffino, era in campo con la maglia del Catania la domenica di «Clamoroso al Cibali», poi, da allenatore, ha “battezzato” due grandi 10, Antognoni e Mancini.
Mirko Ferretti, il suo primo ricordo legato al calcio?
«Un viaggio estenuante in treno, da piccolo, per raggiungere papà Renato in Sicilia: era stato bandiera del Messina e allenava il Canicattì. Alla stazione vennero a prendermi i carabinieri, mi impaurii invece era per proteggermi: c’erano i banditi lungo la strada che conduceva alla tenuta del Barone La Lomia».
Chi era?
«Il presidente del club, personaggio originalissimo. Si faceva portare allo stadio con la sedia gestatoria, come il Papa, girava con un pappagallo e diede al suo gatto il titolo di marchese. Un giorno lo vidi passeggiare nel parco con un ospite elegantissimo: scoprii dopo che era Lucky Luciano».
Fine anni Quaranta, poco dopo comincia il suo percorso di calciatore...
«Ho ancora la palla di carta con cui ho imparato: me l’aveva confezionata il barbiere dove facevo il garzone, ad Alessandria. Sistemava anche i mattoni in strada e mi chiedeva di dribblarli. Conservo anche il primo contratto, con il Felizzano: mi pagavano a punto, 2.000 lire in trasferta, 1.500 in casa».
Prima squadra prof il Como...
«E lì ho conosciuto Gigi Meroni, che poi avrei ritrovato al Toro. Andavo a vederlo all’oratorio. Eravamo molto legati, nella mansarda di piazza Vittorio ero di casa: mi rivedo accanto a lui sul Duetto, sento il profumo del filetto che preparava. In campo, però, ogni tanto mi faceva arrabbiare…»
Racconti…
«Una volta, contro la Lazio, avanzo e lo servo davanti alla porta: dovrebbe solo spingere la palla in rete, invece la ferma, aspetta portiere e difensore, li dribbla e solo a quel punto segna. Brontolo e lui mi sorride: “Essù, Mirko. Sarebbe stato troppo facile”...».
Andiamo con ordine, dal Como al Catania.
«Sono stato benissimo, c’è ancora il mio volto su un murales. Sì, ero in campo il giorno di “Clamoroso al Cibali”. All’andata con l’Inter avevamo preso cinque gol e volevamo riscattarci, vincemmo due a zero e potevamo farne di più. Prima dell’inizio, i dirigenti erano venuti a spronarci: chiedemmo loro di uscire, “ci pensiamo noi”. Quell’anno battemmo anche il Milan 4-3: c’erano Liedholm, Trapattoni, Altafini…».
Tappa successiva la Fiorentina, una sola stagione.
«Arrivammo in finale di Coppa delle Coppe, ma dopo il primo pareggio perdemmo 3-0 con l’Atletico Madrid. In tutte e due le partite per loro segnò Peirò, che poi ritrovai al Toro. Ne ricordo gli abiti eleganti e il disincanto: una volta trascinò me e Moschino in un night, noi stavamo sulle spine, timorosi che qualcuno ci riconoscesse, lui tranquillissimo si godeva la serata».
Poi il Toro.
«Potevo andarci da ragazzino, non mi presero al provino. Ricordo l’emozione del primo giorno al Filadelfia, mi chiedevo quasi tremando chi degli eroi potesse essersi seduto dov’ero io».
Rocco in panchina...
«Figura straordinaria, dai mille volti: musone, burbero, certo, epperò benevolo, schietto. Mi voleva bene. Gli avevano suggerito di vendermi perché ero comunista, andavo all’allenamento con l’Unità, ma lui si oppose. E una volta che avevo combinato qualcosa ed ero punito mi perdonò, avendo intuito il pentimento: “Amici come prima, ma portami una bottiglia di Barbera"».
Com’erano i suoi derby?
«Tra noi e la Juve la divisione era totale: noi la squadra proletaria, di là c’era il padrone. Solo Peirò e Del Sol, spagnoli tutti e due, si frequentavano: potevi trovarli in una birreria di via Mazzini. In campo si dava tutto e vincere era emozionante: ricordo la mia prima stracittadina, 1-0 con gol di Crippa da 30 metri, e una rissa scatenata dalle provocazioni di Sivori, che era bravo con la lingua e non solo con i piedi».
Sivori è il più forte avversario incontrato?
«Lui, Charles, Schiaffino... E Boniperti, che pure era a fine carriera».
Comincia l’avventura in panchina dopo aver chiuso la carriera nella sua Alessandria e dimostra subito fiuto per i giovani talenti. Cosa le dice Giancarlo Antognoni?
«Nel 1971 allenavo in Quarta Serie l’Astimacobi, affiliato al Torino, e negli Allievi c’erano quattro ragazzini venuti da Perugia su indicazione di Ellena, grande dirigente granata che tanti hanno dimenticato. Giancarlo era piccolino, ma faceva cose stupende: calciava di destro e sinistro, lanciava a 40 metri, giocava a testa alta. Lo feci esordire in prima squadra a Ivrea e segnò subito. Quando il Milan mi chiese di segnalare giovani meritevoli, e il Toro mi autorizzò a farlo, non ebbi dubbi: “Prevedo un ottimo avvenire” scrissi nella relazione. La Fiorentina fu più veloce».
Non è l’unico grande Dieci che ha lanciato…
«Quando ero a Bologna, vice di Radice, seguivo sempre gli allenamenti dei ragazzini e due mi incantavano, Mancini e Macina. Nel 1980, poiché Gigi era a Montevideo, guidai la squadra nel Torneo di Capodanno contro il Cagliari e decisi di far esordire Roberto. Il presidente Fabbretti si adombrò: “Se debutta con i grandi – obiettò -, devo dare 4 milioni di lire alla Junior Jesina”. E io: “Appena Mancini mette il sedere in panchina, di milioni ne vale 20"».
Diventò secondo di Radice al Toro.
«Arrivai nel 1976, allenavo la Primavera, poi presi il posto del povero Giorgio Ferrini. Gigi per me è stato il primo innovatore del calcio, non solo per pressing e fuorigioco, ma anche per i ritiri volontari o trascorsi con le famiglie, per i lunedì in discoteca».
Lei ha dedicato un libro al Filadelfia….
«I muri trasudavano storia, sentivamo la presenza degli Invincibili. Volevamo vincere per loro e per i tifosi che venivano a trovarci, in mezzo ai quali era bello vivere, magari chiacchierando al bar della famiglia Cavallito, ascoltando i loro problemi al di là dell’amore per la squadra. Su quel campo ho giocato e guidato anni dopo gli allenamenti, l’emozione non s’è mai affievolita. Gli ultimi gol al Fila li abbiamo fatti io all’Atalanta e Bearzot al Napoli. A Pizzaballa, portiere bergamasco introvabile sull’album Panini, dissi: “Così impari a non farti trovare sulle figurine"».