la Repubblica, 14 dicembre 2025
Spinoza, lezione di libertà
Il talento del professore Gilles Deleuze è ineguagliabile. Ne è una ulteriore dimostrazione, davvero esemplare, il corso del 1980-81 dedicato a Spinoza, ora disponibile nella sua trascrizione fedele per i tipi di Einaudi. La parola orale si distingue da quella scritta perché è preda di momenti di ispirazione, di lampi, di ripetizioni che mentre esercitano una funzione didattica di trasmissione contengono sempre, in modo sorprendente, qualcosa di nuovo. È il talento che caratterizza ogni vero maestro. «Se non si è ripetuto abbastanza», afferma Deleuze, «non si può essere ispirati».
Ma soprattutto questo corso fornisce una prova ennesima che Spinoza non è un filosofo tra gli altri ai quali Deleuze si è dedicato (Leibniz, Hume, Kant, Nietzsche, Bergson ecc.), ma costituisce la matrice fondamentale del suo stesso pensiero che per certi versi può essere considerato come un vero e proprio “ritorno a Spinoza”. In particolare, Deleuze si sofferma sul nesso che unisce ontologia e etica. L’ontologia spinoziana è una ontologia che non rinuncia a pensare Dio sebbene operi una sua radicale immanentizzazione. È quello che è stato descritto come il suo panteismo di fondo: Dio non è un ente teologico al di là del mondo, ma si manifesta nel mondo in quanto ogni ente è un modo d’essere di Dio. Tutte le cose che esistono si convertono nell’Uno-tutto (en Panta).
L’accusa di immanentismo è stata di conseguenza l’accusa maggiore rivoltagli dai suoi nemici che ha determinato la condanna della sua filosofia come eretica. Una delle proposizioni centrali dell’Etica afferma, infatti, che esiste una sola sostanza unica e infinita che determina tutte le creature come modi della sua stessa esistenza. La rivoluzione concettuale spinoziana consiste nell’aver messo in rilievo l’univocità dell’Essere: tutti gli enti finiti sarebbero la manifestazione dell’infinito. Secondo Deleuze Spinoza mette così in forma la «filosofia più antigerarchica che sia mai stata realizzata»: la pietra, lo stolto, l’uomo ragionevole, l’animale e l’erba si equivalgono dal punto di vista ontologico. Se, infatti, l’Essere è univoco, se gli enti sono una maniera dell’Essere – modi dell’Essere – allora il piano di immanenza è il luogo dove l’Essere si realizza pienamente in ogni suo singolo modo.
Ma quale etica può derivare da questa ontologia che esalta l’eguaglianza di tutte le cose? Se tutto è Dio, cosa, per esempio, può spiegare la presenza della disgrazia, della cattiveria o del male? Lo sforzo primario di Spinoza è quello di liberare la filosofia da ogni giudizio morale. In questo egli anticipa Nietzsche: non bisogna dare consistenza ontologica ai valori del bene e del male. Si tratta invece di distinguere rigorosamente l’etica dalla morale come sistema di giudizio. Se la morale si fonda sulla distinzione e sulla opposizione a priori del “bene” e del “male”, l’etica è piuttosto l’arte che distingue il “buono” dal “cattivo”.
Essa ha come sola finalità quella di potenziare la vita. Mentre la morale fa riferimento all’essenza umana che si realizzerebbe compiutamente solo agendo in maniera razionale, l’etica non presuppone alcuna essenza, ma solo l’esistenza e la sua capacità singolare di vita. Se la morale si istituisce sul giudizio, l’etica implica invece un interrogativo su ciò di cui siamo capaci. Se il moralista definisce l’uomo attraverso la sua capacità di adeguarsi a valori che gli pre-esistono, l’etica si interroga sulla capacità dell’uomo di realizzare la sua potenza. L’uomo, infatti, non è un essere piegato moralisticamente all’imperativo morale del dovere, ma una potenza in atto. Quando allora c’è disgrazia, cattiveria, male? Quando l’essere umano diverge dalla sua potenza, quando non vi aderisce pienamente. L’impotente o lo schiavo, secondo Spinoza, sono coloro che hanno passioni tristi perché non accolgono la loro potenza. In questo senso i tiranni o gli uomini religiosi hanno sempre bisogno di coltivare la tristezza dei loro sudditi. La tristezza è, infatti, l’affetto che più di ogni altro mostra il disaccordo tra la vita e la sua potenza.
Ma perché allora, si chiede Spinoza ben prima di Freud, le persone possono combattere per la propria schiavitù? L’etica si occupa proprio di questo: come non avvelenare la propria vita ma renderla il più adeguata alla sua potenza? Come emanciparla dalla tristezza (diminuzione della potenza) e renderla invece capace di gioia (accrescimento della potenza)? Lo Spinoza di Deleuze non può non notare che gli esseri umani tendono costantemente a scegliere l’arsenico piuttosto che un cibo buono. Per questa ragione il suo materialismo etico spinge la vita a darsi gioia evitando tutto ciò che genera dipendenza e tristezza. È questo il fondamento ultimo della sua etica: quello che allarga la vita è buono mentre quello che ne restringe la potenza affermativa è cattivo. Non perdete tempo a criticare quelli che non vi piacciono, ammonisce lo spinoziano Deleuze, ma dedicatevi solo a quelli che vi piacciono. Tenetevi lontani da ogni forma di intossicazione che possa ridurre la vostra potenza. Mentre la morale distingue vizio da virtù e pensa alla virtù come negazione ascetica del vizio, si tratta invece di distinguere il rapporto che alimenta la potenza da quello che invece la diminuisce.
Ma la potenza non va confusa con una forma di potere. Mentre il potere limita la potenza, la potenza trascende il potere. Mentre il potere realizza chiusi rapporti di sottomissione, la potenza si realizza nell’apertura della gioia. In questo senso essa è il «vero contrario della morte». Quella che Spinoza chiamerà “beatitudine” non è altro che «il pieno possesso della potenza». È ciò che rende davvero liberi. Diversamente, l’uomo diviene schiavo quando rinuncia alla propria potenza per perseguire il potere, esercitandolo o sottomettendovisi.
Ma il potere non genera potenza ma solo tristezza. «Bisognerebbe fare dell’importanza – afferma Deleuze – un criterio di esistenza. Che cos’è che le persone ritengono importante nelle loro vite? Parlare alla radio? Godere di buona salute?». Quello che è davvero “il più importante” è rendere conforme la propria esistenza alla propria potenza, è riuscire ad esprimere – «fare essere» – nella propria esistenza la potenza che sono. Una vita felice è una vita che ha fatto tutto quello che poteva. L’eternità non ha altro significato che questo: non significa impedire la morte – non è l’immortalità – ma realizzare pienamente la propria potenza.
Il giudizio etico, diversamente da quello morale, concerne solo l’esistenza rispetto a sé medesima: «A giudicarvi è la natura delle vostre tristezze e delle vostre gioie». Il soggetto che si perde nell’odio e nella tristezza costruisce il peggior modo di esistenza perché diminuisce la sua potenza.
Non si tratta dunque di giudizio morale ma di “sperimentare” la propria potenza: «Quale è il tuo suono?», si chiede Deleuze. Insomma, come vivi? Nell’ordine della realizzazione gioiosa della tua potenza o in quello della sua triste e risentita diminuzione?